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Il colore della vita.

Il colore della vita.
Faceva freddo quel giorno, il vento attraversava l’anima intingendola di odori, spogliandola di certezze, derubandole il colore della vita. Un cielo indeciso attraversato da uccelli era come un tavolo da biliardo di cera, vulnerabile dal primo pianto mattutino. Scendeva la prima neve satura di quotidianità, a solleticare la curiosità dei bimbi, àncora di salvezza per gli anziani, preludio di racconti e favole. Da qui, da questa finestra del casolare la città era bellissima, unita, come uova, come tesori d’oriente ancora celati dal fango, desiderati da giovani donne in preda all’adolescenza. Alberi come sostegno della vita, delle case dei nonni dimenticate sull’appennino. Case di segreti e storie, di specchi rotti e porte in legno consumate dall’umidità, dal lento sbiadire della vita quotidiana. Nuvole candide rapivano il blu e rivendicavano il dominio sulla città, sulle vite, sui sogni. Il vento era forte e deciso, toglieva il respiro e si faceva strada tra gli spifferi di questa vecchia finestra, entrava all’improvviso e svegliava i malanni stagionali. Si divertiva a diffondere per la stanza il fumo di quella sigaretta dimenticata sul davanzale, una lucky strike blu. Al bordo del tavolo un bicchiere di Jameson 12, forte ma non per Dan. Una vita a rincorrere una carriera da scrittore e poi ritrovarsi in un fottuto osservatorio di fenomeni geologici. Assurdi tempi di crisi, benedetti casomai. Valla a trovare una via facile in questo mondo, vallo a trovare una sedia su cui accomodarsi nel traffico quotidiano di notizie allarmanti e temporali di suicidi. Dan guardava la città nuova e pensava alla sua Bologna, quelle torri, quella piazza, quell’aria che lo accoglieva in aeroporto, la pizza da Altero o semplicemente un pranzo da Vito. Gli occhi della sua vita. Guardava la città così bella e così lontana dal suo cuore, dai suoi sogni. Perché era così maledettamente difficile essere liberi di scegliere? Avrebbe fatto di tutto per ritornare a casa, starsene sotto i portici o semplicemente in giro a bere vino. Avrebbe giocato a morra o si sarebbe anche travestito da arlecchino. Guardava la città e inevitabilmente una lacrima gli rigò il viso, lenta, precisa, amara. Sperduto su quei colli ripensava alle scelte, alle vie lasciate inesplorate in cerca di una tranquillità dei sensi. Povera anima schiaffeggiata dalla vita. Seduto su quella seggiola rossa sospesa nel verde si passò una mano tra i capelli quasi a voler sospendere i pensieri, fermare quella malinconia che viaggiava in lui. Si sentiva un nulla nella natura, una goccia d’acqua marina o dolce di camomilla. Quel vento pian piano aveva sospeso il tempo, arrivato alle soglie della sua finestra si fermò, quasi a non voler disturbare quell’inquietudine, poi più forte di prima riprese a ritmi di ricordi e stati d’animo. Dan indispettito scese da quella seggiola e guardò lontano, vide il campanile diroccato, un albero, quasi invisibile alle spalle, ricordò i canti di Natale. La croce simbolo di vita e morte. Eterna rinascita e speranza di se stessi. Voleva andarsene e se ne andò quel giorno stesso. Una radio parlava in cabina, ma Dan non c’era già più. Stava per venir giù una tempesta che con la natura aveva poco a che fare, c’entrava la sorte e anche un po’ la libertà. Dan era in viaggio verso se stesso, qualcuno lo ha visto in stazione, altri in una vecchia osteria a ridere di sé e di quell’assurdo giorno di novembre. Con una foto di città nel cuore e una stampata negli occhi, una torre o giù di lì a segnare la via nel bel mezzo di un vento di rivalsa e di nuvole candide come la felicità.
 
Giuseppe Zanzarelli
 
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