Tommaso Della Dora's profile

Quando la terra trema. L'Aquila, 3:32

L’AQUILA E ONNA, 8 ANNI DOPO
VIAGGIO NELLA CITTÀ DISTRUTTA DAL SISMA DEL 6 APRILE 2009.
L’AQUILA, 5 FEBBRAIO 2017

6 aprile 2009, ore 3:32 42°20′51.36″N 13°22′48.4″E. Dal monte Luco, a pochi passi dal Centro Storico di L’Aquila, si scatena la forza della terra, travolgendo in pochi secondi col suo rombo e le sue onde tutta la città e cambiando radicalmente la vita dei suoi abitanti. Le vittime saranno 309, i danni al patrimonio artistico e culturale enormi, quelli al tessuto sociale di tutto il circondario del capoluogo abruzzese incalcolabili. 
A otto anni di distanza ho deciso di visitare L’Aquila e Onna, e di vedere coi miei occhi, per poi raccontarlo, come si presenta ora.
Io e i miei compagni di viaggio arriviamo a L’Aquila alle 11 circa della mattina di domenica 5 febbraio. Parcheggiamo le nostre auto in Piazza della Fontana Luminosa e da lì parte la nostra camminata per le vie di una delle città più belle e ricche di cultura in Italia. La prima tappa del giro è la Fortezza Spagnola, imponente e meravigliosa, resa ancor più solenne dal cielo plumbeo e pieno di nubi minacciose che oggi la sovrasta. Una gru su un fianco, elemento discordante e figlio della tragedia, ne rovina solo parzialmente le linee, le impalcature sulla sua parte frontale la violentano in maniera peggiore.
Torniamo verso le vie del Centro, superando l’Auditorium del Parco di Renzo Piano, e resto colpito dallo stato degli edifici. Non avevo mai visto una città colpita da un terremoto prima d’ora, se non in televisione o nelle fotografie. Vederlo coi propri occhi significa viverlo in tutt’altra maniera. Palazzi che mostrano profonde cicatrici, scheletri di legno e ferro a evitare che tutto crolli, a salvare il salvabile prima dei futuri interventi. Nulla è intero, tutto è irregolare, le ferite sono ovunque: lì dove meno di otto anni fa le persone parlavano, vivevano, mangiavano, facevano all’amore, ora regna solo il silenzio, dove c’era vita ora c’è il vuoto.
Continuando a camminare ci si imbatte in frequenti cartelli con la scritta “Zona rossa”. Una zona rossa non più sorvegliata da nessuno, nella quale si può transitare senza alcun problema, anche se non so se sia una cosa priva di rischio. L’impressione è che addentrandosi nel cuore della città la situazione sia peggiore, le strade più sghembe, i muri più fratturati, il silenzio più silenzioso.
In via Garibaldi una carriola riposa a terra, a ricordarmi il “movimento delle carriole”, quei cittadini che il 28 marzo 2010, a poco meno di un anno dal sisma, entrarono nella zona rossa “armati” di carriole come questa, per rimuovere le macerie che giacevano abbandonate nel cuore della loro città. Subiranno anche un processo per la loro manifestazione non autorizzata, per essere entrati senza permesso in zona rossa, addirittura per la violazione del silenzio elettorale all’indomani delle elezioni provinciali.
E si va avanti, superando la chiesa di San Silvestro abbracciata a robuste impalcature. In Via Duca degli Abruzzi una scritta su un muro recita “vota casalesi”, non so se con ironia, provocazione o che altro. Giungiamo al Ponte del Belvedere, anch’esso gravemente ferito, quasi disteso a mostrare le sue vene scoperte, ma pronto ad accoglierci per mostrarci quello che è ora il nuovo skyline del Centro Storico aquilano: una distesa di gru, oggi immobili, a testimonianza di quanto ancora sia lontana la vista di una città pronta a vivere di nuovo.
All’ingresso del ponte un hotel stuprato dalla violenza della terra e dal pressapochismo umano. A sinistra lo skyline del centro storico, a destra il monte Luco, origine di tutto. Ai suoi piedi Via XX Settembre e i quartieri ad essa vicini, i più colpiti dal terremoto, quelli bagnati da più lacrime.
Superato il ponte si scende verso quello che è il vero centro del disastro, la zona di Via XX Settembre. Qui sorgeva il primo palazzo di cui è stato documentato il crollo dalle telecamere RAI all’alba del 6 aprile. Le prime immagini di come L’Aquila era diventata dopo quella manciata di secondi terribili. Al civico 79 rimasero sotto le macerie 9 persone; sarà poi stabilito nei processi seguenti alla tragedia che quel palazzo era progettato male e costruito peggio, ma non ci saranno colpevoli, perché tutte le persone direttamente responsabili per quel lavoro svolto circa cinquant’anni prima sono già morte.
Poco distante da qui, quello che è uno dei simboli del terremoto di L’Aquila, ma soprattutto delle pessime abitudini italiane, e di come da una parte c’è sempre qualcuno a piangere i morti, dall’altra qualcun altro li ha causati direttamente, e nel farlo si è arricchito. Sono di fronte alla Casa dello Studente, e faccio fatica a contenere le emozioni contrastanti mentre scatto le mie foto.
La Casa dello Studente fu costruita nel 1965 dalla Casa Farmaceutica Angelini, poi ristrutturata e ampliata per modificarne la destinazione d’uso nel 2000. Solo che nello svolgere questi lavori non furono calcolati i rischi derivanti dall’intervento. Per imperizia? Incapacità? Pressapochismo? Lucro? Non mi è dato di saperlo. Fatto sta che l’11 maggio del 2015 i tre ingegneri responsabili di quel lavoro sono stati condannati a 4 anni di reclusione e il presidente della Commissione collaudo dell'Azienda per il diritto agli studi universitari a 2 anni. Quell’edificio era destinato a cadere sotto i colpi del terremoto perché era stato modificato in maniera errata. Il terremoto lì doveva arrivare, non era di certo la prima volta che accadeva (dalla prima metà del 1200, periodo della fondazione della citta di L’Aquila, si sono susseguiti almeno 6 sismi violenti che l’hanno coinvolta direttamente, negli anni 1315, 1349, 1461, 1646, 1672, 1703). In quell’edificio hanno perso la vita 7 studenti e il portiere dello stabile.
A poco più di cinquanta metri da qui, si possono osservare dall’alto i quartieri maggiormente colpiti dai crolli ingenti avvenuti nel 2009. Quartieri costruiti sulle macerie del terremoto devastante che colpì la città nel 1703, e che come allora hanno dovuto pagare il loro tributo alla terra. Sulla destra rimango colpito da un palazzo nuovissimo: conto sei piani e non posso fare a meno di domandarmi se sia sensato costruire un edificio simile ora e in quella zona. Accanto a questo bel palazzo nuovo di zecca le macerie del 2009, sotto di esso le macerie del 1703. Forse sono io a non capire, ma continuo a guardarlo e mi spaventa a morte.
Continuiamo nel nostro viaggio, e Natalia e Max, i miei “ciceroni”, mi mostrano quello che rimane di un palazzo di cinque piani, in Via Campo di Fossa (i nomi delle vie a volte sembrano volerti parlare: Via Campo di Fossa, poco distante Via Cola d’Amatrice). Mi spiegano che quello è il palazzo che ha prodotto il maggior numero di vittime (27) all’interno di quella immane tragedia. Via Campo di Fossa 6B. Non ci sono colpevoli neppure per questa tragedia. Si parla di cemento inadeguato, di poco acciaio, di pericolosa pendenza. Ma non c’è qualcuno a cui dare la colpa. Una storia fin troppo vista, rivista, stravista.
Da qui, dopo aver visto la parte più dolorosa della storia, ci incamminiamo per tornare alle nostre auto. Seguiamo un altro percorso e ho modo di vedere altre cose significative: chiese in difficoltà, la bellissima Piazza del Duomo con la chiesa di Santa Maria del Suffragio che si nasconde timida dietro le impalcature, a celare il suo dolore. E a pochi passi dalle nostre macchine, le cucce per i cani randagi nel Parco del Castello. Un altro simbolo di L’Aquila, ma finalmente un simbolo positivo, una traccia di umanità.
Dopo quasi 10 km a piedi per il centro, la cosa che mi fa pensare e soffrire è rendermi conto che in tutta quella strada percorsa, in circa tre ore, non ho incrociato quasi nessuno, in questa domenica mattina e in un centro storico che prima di quelle 3:32 doveva essere pieno di vita. La vita pare essersene andata, e fatta eccezione per gli amici che sono con me in questa avventura, chi la fa da padrone e chi mi accompagna sono il silenzio e la desolazione. Il silenzio assordante di qualcosa che non c’è più e non puoi sapere se tornerà mai, la desolazione della morte che ha allungato le sue dita ossute su un’intera, meravigliosa città.
Dopo il pranzo chiedo ai miei compagni di portarmi a Onna. Dal 2009 il nome di questa piccola comunità mi è rimasto piantato in mente, e con esso la storia di un paesello che in qualche secondo vede diminuire di un sesto la propria popolazione e scomparire quasi totalmente la materia che lo componeva. Prima di inoltrarci in quella che una volta era Onna, ci soffermiamo sulle foto storiche scattate prima del sisma, appese all’esterno dei recinti del villaggio della Protezione Civile, che divide “Onna vecchia” da “Onna nuova”. Camminando per le vie della vecchia Onna, non riuscirò a riconoscere neppure un sasso di ciò che avevo visto pochi minuti prima in quei bellissimi scatti. Anche qui a dominare incontrastato è il silenzio: in alto un sole basso e pronto a tramontare prova senza troppo successo a filtrare tra le nubi, intorno a noi la natura ha preso il sopravvento, e il cumulo di massi che una volta si chiamavano case è in buona parte ricoperto da un vestito verde. Incontriamo solo un gregge di pecore, due pastori e quattro cani. Nessuno di loro pare aver voglia di emettere alcun suono, forse in ossequio a quanto hanno intorno.
Completato il giro del nulla che resta di Onna, le ultime due foto. Con l’intento di ripartire da queste immagini: il ricordo di chi non c’è più, sancito dal memoriale alle vittime di quella notte, e la nuova Onna, che vive questa rinnovata vita di comunità nelle sue casette in legno, dono della Provincia Autonoma di Trento. Da qui si riparte e si va incontro al futuro, senza dimenticarsi il passato e quello che ha tolto.

Testo e fotografie: Tommaso Della Dora.
Si ringraziano per la collaborazione e il sostegno: 
Massimiliano Fiorito, Natalia De Luca, Marco Mezzanotte, Patrizio Cardelli, Evita Casciano

L’AQUILA E ONNA, 8 ANNI DOPO
VIAGGIO NELLA CITTÀ DISTRUTTA DAL SISMA DEL 6 APRILE 2009.
L’AQUILA, 5 FEBBRAIO 2017

6 aprile 2009, ore 3:32 42°20′51.36″N 13°22′48.4″E. Dal monte Luco, a pochi passi dal Centro Storico di L’Aquila, si scatena la forza della terra, travolgendo in pochi secondi col suo rombo e le sue onde tutta la città e cambiando radicalmente la vita dei suoi abitanti. Le vittime saranno 309, i danni al patrimonio artistico e culturale enormi, quelli al tessuto sociale di tutto il circondario del capoluogo abruzzese incalcolabili. 
A otto anni di distanza ho deciso di visitare L’Aquila e Onna, e di vedere coi miei occhi, per poi raccontarlo, come si presenta ora.
Io e i miei compagni di viaggio arriviamo a L’Aquila alle 11 circa della mattina di domenica 5 febbraio. Parcheggiamo le nostre auto in Piazza della Fontana Luminosa e da lì parte la nostra camminata per le vie di una delle città più belle e ricche di cultura in Italia. La prima tappa del giro è la Fortezza Spagnola, imponente e meravigliosa, resa ancor più solenne dal cielo plumbeo e pieno di nubi minacciose che oggi la sovrasta. Una gru su un fianco, elemento discordante e figlio della tragedia, ne rovina solo parzialmente le linee, le impalcature sulla sua parte frontale la violentano in maniera peggiore.
Torniamo verso le vie del Centro, superando l’Auditorium del Parco di Renzo Piano, e resto colpito dallo stato degli edifici. Non avevo mai visto una città colpita da un terremoto prima d’ora, se non in televisione o nelle fotografie. Vederlo coi propri occhi significa viverlo in tutt’altra maniera. Palazzi che mostrano profonde cicatrici, scheletri di legno e ferro a evitare che tutto crolli, a salvare il salvabile prima dei futuri interventi. Nulla è intero, tutto è irregolare, le ferite sono ovunque: lì dove meno di otto anni fa le persone parlavano, vivevano, mangiavano, facevano all’amore, ora regna solo il silenzio, dove c’era vita ora c’è il vuoto.
Continuando a camminare ci si imbatte in frequenti cartelli con la scritta “Zona rossa”. Una zona rossa non più sorvegliata da nessuno, nella quale si può transitare senza alcun problema, anche se non so se sia una cosa priva di rischio. L’impressione è che addentrandosi nel cuore della città la situazione sia peggiore, le strade più sghembe, i muri più fratturati, il silenzio più silenzioso.
In via Garibaldi una carriola riposa a terra, a ricordarmi il “movimento delle carriole”, quei cittadini che il 28 marzo 2010, a poco meno di un anno dal sisma, entrarono nella zona rossa “armati” di carriole come questa, per rimuovere le macerie che giacevano abbandonate nel cuore della loro città. Subiranno anche un processo per la loro manifestazione non autorizzata, per essere entrati senza permesso in zona rossa, addirittura per la violazione del silenzio elettorale all’indomani delle elezioni provinciali.
E si va avanti, superando la chiesa di San Silvestro abbracciata a robuste impalcature. In Via Duca degli Abruzzi una scritta su un muro recita “vota casalesi”, non so se con ironia, provocazione o che altro. Giungiamo al Ponte del Belvedere, anch’esso gravemente ferito, quasi disteso a mostrare le sue vene scoperte, ma pronto ad accoglierci per mostrarci quello che è ora il nuovo skyline del Centro Storico aquilano: una distesa di gru, oggi immobili, a testimonianza di quanto ancora sia lontana la vista di una città pronta a vivere di nuovo.
All’ingresso del ponte un hotel stuprato dalla violenza della terra e dal pressapochismo umano. A sinistra lo skyline del centro storico, a destra il monte Luco, origine di tutto. Ai suoi piedi Via XX Settembre e i quartieri ad essa vicini, i più colpiti dal terremoto, quelli bagnati da più lacrime.
Superato il ponte si scende verso quello che è il vero centro del disastro, la zona di Via XX Settembre. Qui sorgeva il primo palazzo di cui è stato documentato il crollo dalle telecamere RAI all’alba del 6 aprile. Le prime immagini di come L’Aquila era diventata dopo quella manciata di secondi terribili. Al civico 79 rimasero sotto le macerie 9 persone; sarà poi stabilito nei processi seguenti alla tragedia che quel palazzo era progettato male e costruito peggio, ma non ci saranno colpevoli, perché tutte le persone direttamente responsabili per quel lavoro svolto circa cinquant’anni prima sono già morte.
Poco distante da qui, quello che è uno dei simboli del terremoto di L’Aquila, ma soprattutto delle pessime abitudini italiane, e di come da una parte c’è sempre qualcuno a piangere i morti, dall’altra qualcun altro li ha causati direttamente, e nel farlo si è arricchito. Sono di fronte alla Casa dello Studente, e faccio fatica a contenere le emozioni contrastanti mentre scatto le mie foto.
La Casa dello Studente fu costruita nel 1965 dalla Casa Farmaceutica Angelini, poi ristrutturata e ampliata per modificarne la destinazione d’uso nel 2000. Solo che nello svolgere questi lavori non furono calcolati i rischi derivanti dall’intervento. Per imperizia? Incapacità? Pressapochismo? Lucro? Non mi è dato di saperlo. Fatto sta che l’11 maggio del 2015 i tre ingegneri responsabili di quel lavoro sono stati condannati a 4 anni di reclusione e il presidente della Commissione collaudo dell'Azienda per il diritto agli studi universitari a 2 anni. Quell’edificio era destinato a cadere sotto i colpi del terremoto perché era stato modificato in maniera errata. Il terremoto lì doveva arrivare, non era di certo la prima volta che accadeva (dalla prima metà del 1200, periodo della fondazione della citta di L’Aquila, si sono susseguiti almeno 6 sismi violenti che l’hanno coinvolta direttamente, negli anni 1315, 1349, 1461, 1646, 1672, 1703). In quell’edificio hanno perso la vita 7 studenti e il portiere dello stabile.
A poco più di cinquanta metri da qui, si possono osservare dall’alto i quartieri maggiormente colpiti dai crolli ingenti avvenuti nel 2009. Quartieri costruiti sulle macerie del terremoto devastante che colpì la città nel 1703, e che come allora hanno dovuto pagare il loro tributo alla terra. Sulla destra rimango colpito da un palazzo nuovissimo: conto sei piani e non posso fare a meno di domandarmi se sia sensato costruire un edificio simile ora e in quella zona. Accanto a questo bel palazzo nuovo di zecca le macerie del 2009, sotto di esso le macerie del 1703. Forse sono io a non capire, ma continuo a guardarlo e mi spaventa a morte.
Continuiamo nel nostro viaggio, e Natalia e Max, i miei “ciceroni”, mi mostrano quello che rimane di un palazzo di cinque piani, in Via Campo di Fossa (i nomi delle vie a volte sembrano volerti parlare: Via Campo di Fossa, poco distante Via Cola d’Amatrice). Mi spiegano che quello è il palazzo che ha prodotto il maggior numero di vittime (27) all’interno di quella immane tragedia. Via Campo di Fossa 6B. Non ci sono colpevoli neppure per questa tragedia. Si parla di cemento inadeguato, di poco acciaio, di pericolosa pendenza. Ma non c’è qualcuno a cui dare la colpa. Una storia fin troppo vista, rivista, stravista.
Da qui, dopo aver visto la parte più dolorosa della storia, ci incamminiamo per tornare alle nostre auto. Seguiamo un altro percorso e ho modo di vedere altre cose significative: chiese in difficoltà, la bellissima Piazza del Duomo con la chiesa di Santa Maria del Suffragio che si nasconde timida dietro le impalcature, a celare il suo dolore. E a pochi passi dalle nostre macchine, le cucce per i cani randagi nel Parco del Castello. Un altro simbolo di L’Aquila, ma finalmente un simbolo positivo, una traccia di umanità.
Dopo quasi 10 km a piedi per il centro, la cosa che mi fa pensare e soffrire è rendermi conto che in tutta quella strada percorsa, in circa tre ore, non ho incrociato quasi nessuno, in questa domenica mattina e in un centro storico che prima di quelle 3:32 doveva essere pieno di vita. La vita pare essersene andata, e fatta eccezione per gli amici che sono con me in questa avventura, chi la fa da padrone e chi mi accompagna sono il silenzio e la desolazione. Il silenzio assordante di qualcosa che non c’è più e non puoi sapere se tornerà mai, la desolazione della morte che ha allungato le sue dita ossute su un’intera, meravigliosa città.
Dopo il pranzo chiedo ai miei compagni di portarmi a Onna. Dal 2009 il nome di questa piccola comunità mi è rimasto piantato in mente, e con esso la storia di un paesello che in qualche secondo vede diminuire di un sesto la propria popolazione e scomparire quasi totalmente la materia che lo componeva. Prima di inoltrarci in quella che una volta era Onna, ci soffermiamo sulle foto storiche scattate prima del sisma, appese all’esterno dei recinti del villaggio della Protezione Civile, che divide “Onna vecchia” da “Onna nuova”. Camminando per le vie della vecchia Onna, non riuscirò a riconoscere neppure un sasso di ciò che avevo visto pochi minuti prima in quei bellissimi scatti. Anche qui a dominare incontrastato è il silenzio: in alto un sole basso e pronto a tramontare prova senza troppo successo a filtrare tra le nubi, intorno a noi la natura ha preso il sopravvento, e il cumulo di massi che una volta si chiamavano case è in buona parte ricoperto da un vestito verde. Incontriamo solo un gregge di pecore, due pastori e quattro cani. Nessuno di loro pare aver voglia di emettere alcun suono, forse in ossequio a quanto hanno intorno.
Completato il giro del nulla che resta di Onna, le ultime due foto. Con l’intento di ripartire da queste immagini: il ricordo di chi non c’è più, sancito dal memoriale alle vittime di quella notte, e la nuova Onna, che vive questa rinnovata vita di comunità nelle sue casette in legno, dono della Provincia Autonoma di Trento. Da qui si riparte e si va incontro al futuro, senza dimenticarsi il passato e quello che ha tolto.

Testo e fotografie: Tommaso Della Dora.
Si ringraziano per la collaborazione e il sostegno: 
Massimiliano Fiorito, Natalia De Luca, Marco Mezzanotte, Patrizio Cardelli, Evita Casciano

Il Forte Spagnolo.
Il Forte Spagnolo.
Strade nel Centro Storico
Strade nel Centro Storico
Una traccia del "movimento delle carriole"
Una traccia del "movimento delle carriole"
"Vota Casalesi"
"Vota Casalesi"
Il Ponte del Belvedere. A destra, il Monte Luco.
Il Ponte del Belvedere. A destra, il Monte Luco.
Il Ponte del Belvedere.
Il Ponte del Belvedere.
Lo Skyline di L'Aquila.
Lo Skyline di L'Aquila.
La Casa Dello Studente.
La Casa Dello Studente.
Il primo crollo ripreso la notte del 6 aprile dalle telecamere RAI, in Via XX Settembre.
Il primo crollo ripreso la notte del 6 aprile dalle telecamere RAI, in Via XX Settembre.
La zona colpita più gravemente dal sisma. Sulla destra, un palazzo di 6 piani nuovo di zecca.
La zona colpita più gravemente dal sisma. Sulla destra, un palazzo di 6 piani nuovo di zecca.
Via Campo di Fossa 6B.
Via Campo di Fossa 6B.
Piazza del Duomo.
Piazza del Duomo.
Chiese in ristrutturazione.
Chiese in ristrutturazione.
Le cucce per i cani, vicino all'Auditorium del Parco di Renzo Piano
Le cucce per i cani, vicino all'Auditorium del Parco di Renzo Piano
Un gregge attraversa le vie della "vecchia Onna"
Un gregge attraversa le vie della "vecchia Onna"
Quel che è rimasto della vecchia Onna. 
Quel che è rimasto della vecchia Onna. 
A Onna "nuova" una via ricorda le vittime del 6 aprile.
A Onna "nuova" una via ricorda le vittime del 6 aprile.
In memoria delle vittime di Onna.
In memoria delle vittime di Onna.
#Edit:

L’Aquila, 14 gennaio 2018.

A L’Aquila ci sono un’infinità di cose da fotografare. Non poteva bastare un solo giorno, non ne possono bastare neppure due, ovviamente. Intanto ci sono tornato, e ho colmato qualche lacuna.

L’appuntamento è per le 9 di mattina, con l’immancabile Massimiliano, all’uscita di Basciano. Come sempre Max è puntualissimo, e possiamo partire alla volta del capoluogo abruzzese. La prima tappa fissata è a Paganica, dove la nostra nuova amica Antonella ci porterà a visitare le vie del centro storico distrutto e ci mostrerà anche come la frazione sta rinascendo. Paganica è la più grande delle frazioni di L’Aquila, con i suoi 5000 abitanti. La prima cosa che notiamo, arrivandoci, sono un paio di bellissimi murales. Antonella ci spiega che nel periodo successivo al terremoto diversi artisti si sono recati lì per regalare la loro arte. C’incamminiamo per le strette vie in leggera salita e lo scenario, via via che ci si avvicina alla parte più antica del paese, peggiora. Questo perché, come ci spiega la nostra “guida”, la ricostruzione parte dall’esterno, per poi estendersi verso il centro. Vediamo infatti case nuove di zecca via via diradarsi e lasciare il posto alle immagini che ormai cominciamo tristemente a conoscere bene: edifici sventrati, porte e finestre aperte a mostrare mondi e vite fermatesi a quei 20 secondi, rimaste come congelate e indifferenti allo scorrere del tempo. Antonella ci indica anche la casa in cui viveva sua suocera, quella notte è andata a recuperarla, trovandola fortunatamente viva. Il tempo che si è fermato, qui a Paganica, è rappresentato anche dalle luminarie: le  luci pronte per la Pasqua (che sarebbe arrivata il 12 aprile) sono ancora lì, in bella vista tra gli stretti vicoli del borgo. La vista sul Gran Sasso è suggestiva, contrasta con quanto ci sta intorno e ci colpisce nel profondo. Ogni volta è come la prima volta. Chiudiamo il nostro giro per Paganica con la Chiesa della Concezione: danneggiata in maniera drammatica dal sisma, è stata ristrutturata ed è pronta a tornare alla vita. Simbolo di una ricostruzione che è in atto, sarà lunga ma è in pieno svolgimento. Salutiamo Antonella, ringraziandola per il tempo regalatoci, e ci dirigiamo a L’Aquila, dove ci attende la nostra seconda guida.

Ci incontriamo con Patrizio alla Fontana Luminosa, luogo dal quale era partito anche il mio primo giro aquilano. Per raggiungere la prima storia che voglio vedere (e fotografare) ci addentriamo nelle vie del Centro Storico. Noto da subito che ci sono diversi palazzi ristrutturati e pronti ad essere vissuti, e Patrizio conferma la mia impressione. In questi undici mesi, a quanto posso vedere, la ricostruzione è andata avanti a passo svelto. Passiamo in Piazza del Duomo e vedo, con gioia, che la Chiesa delle Anime Salve è libera dalle impalcature che la bardavano a febbraio dello scorso anno, pronta anche lei a iniziare una nuova vita. A coprire la facciata di un edificio in ristrutturazione alle nostre spalle, una scritta enorme su un telo appoggiato alle impalcature, “L’Aquila rinasce”. Di fronte una gru, come a volerlo confermare, a voler dire: “Stiamo lavorando”.Superata la piazza, dopo qualche centinaia di metri vedo una scritta che conoscevo, e che conosce chiunque abbia seguito, anche distrattamente, questa vicenda. “Palazzo del Governo”. Scoprirò solo dopo che la scritta è esattamente la stessa (…anche se sia Patrizio che Max mi dicono da subito che pensano sia quella), quella che era stata rotta in più punti dallo scuotimento di quella notte. È stata posta lì, dove ha sede ora la Prefettura, nel 2013, dopo essere stata restaurata. Ed è proprio il Palazzo del Governo (o meglio, quello che era il Palazzo del Governo nel 2009) la prima tappa obbligata del mio secondo giro in questa splendida città. È uno dei simboli del terremoto del 2009: doveva essere uno dei punti nevralgici in caso di emergenza, e invece è crollato quasi completamente sotto i colpi delle onde sismiche. Resta solo il piano terra, anch’esso dilaniato. Alle sue spalle la Chiesa di Sant’Agostino, imponente e inquietante, coperta com’è dalle impalcature. Non avevo mai visto questo edificio senza la sua famosa scritta “sgarruppata” e come ogni simbolo che si rispetti mi provoca forti emozioni. Mi fa anche incazzare, almeno finchè Patrizio non mi fa riflettere sul fatto che per determinati uffici si vogliono sempre palazzi storici e di prestigio, e questo tipo di edifici è, gioco forza, fragile. Forse troppo.

Dopo aver fotografato il poco che rimane del Palazzo del Governo, riprendiamo la marcia fino alla prossima tappa. Si va verso la Basilica di Santa Maria di Collemaggio. Un altro simbolo della città. E anche del terremoto. Purtroppo. Ci arriviamo percorrendo un bel marciapiede, con una siepe sulla sinistra e del verde in discesa sulla destra. Terminato questo sentiero la vista è riempita da un grande giardino, con gli alberi su entrambi i lati e, in fondo, al centro, questo capolavoro immortale. La basilica risale al 1288, al suo interno è stato incoronato Papa Celestino V il 29 agosto del 1294 (qui riposano le sue spoglie), ed è sede di un giubileo annuale, il primo della storia, istituito con la Bolla del Perdono del 29 settembre 1294 e noto con il nome di Perdonanza Celestiniana, ragion per cui è caratterizzata anche da una Porta Santa, su una facciata laterale. Non è la prima volta che viene distrutta da un forte terremoto (come tutta L’Aquila, del resto), ragion per cui presenta una considerevole commistione di stili. Nel 2009 è crollata nella parte in corrispondenza all’incontro tra la navata e il transetto, zona di tipica “fragilità geometrica” degli edifici ecclesiastici. È stata riaperta di recente, dopo una massiva ristrutturazione/ricostruzione, nel dicembre del 2017. Ed è una meraviglia da vedere a tutti i costi. La navata è imponente e molto lunga (Max una volta mi disse che ci si potrebbe fare trecking…), percorrendola si sente odore di intonaco e legno nuovi e freschi. Un miracolo restituito al genere umano.

Dopo esserci goduti per molti minuti la meraviglia di Collemaggio risorta, riprendiamo il cammino. Tornando indietro verso le auto, mi cadono gli occhi sui portici che conducono alla Piazza, luogo n cui immagino si svolgesse molta della vita sociale del Centro Storico. Le colonne rinforzate, il silenzio e la solitudine mi portano di nuovo a riflettere su quanto un evento simile sia capace di dilaniare la vita stessa di una comunità. Ci concediamo un caffè e ripercorriamo il centro, passando di fronte alla Villa Comunale, a San Marco, Santa Maria di Paganica. La prossima meraviglia che la città mi deve mostrare è un altro dei suoi simboli. Dopo un breve giro in auto arriviamo alla Fontana delle 99 Cannelle. Non l’avevo mai vista, e come spesso mi accade mi domando perché. È qualcosa di unico, non ho mai visto niente che le somigli. Le 99 cannelle rappresentano i 99 castelli del circondario che, nel XIII secolo, parteciparono alla fondazione della città. Ha riportato solo lievi danni nel 2009, soprattutto sull’ala destra del suo complesso, appoggiata alla cinta muraria della città. È stata poi restaurata quasi completamente mediante donazioni e riaperta già nel dicembre del 2010. Alle nostre spalle un’altra piccola perla, la Chiesta di San Vito alla Rivera, anch’essa completamente restaurata. Al suo interno ritroviamo gli stessi graditi odori sentiti poco prima a Santa Maria di Collemaggio.

È quasi ora di pranzo, e Patrizio con somma gentilezza c’invita a mangiare a casa sua, con la sua famiglia, i suoi cani e i suoi gatti. Vive a Roio Piano, poche centinaia di metri al di sotto dell’epicentro del terremoto, in una villetta meravigliosa che ha resistito benissimo al terremoto. Un tagliere di ottimi formaggi e salumi, un bel piatto di gnocchi fatti in casa al ragù, una grigliata di carne di pecora e agnello in pieno stile abruzzese, tra cordiali chiacchiere e racconti. Mentre sorseggiamo il caffè a fine pasto, la moglie di Patrizio mi mostra la prima pagina del Messaggero Abruzzo. Al centro un articolo che parla del famigerato Giampaolo Giuliani, colui che sostenne (e sostiene anche oggi) di aver previsto la scossa e di essere in grado di prevederne altre, e che in quei giorni di lutto e disperazione era impegnato a chiedere le scuse ufficiali a Bertolaso, che invece mi risulta fosse impegnato in faccende più serie. Leggere oggi quella pagina fa quasi sorridere, a distanza di poco meno di nove anni è ormai evidente che il Giuliani non ha previsto, non prevede, e mai prevederà nulla.

Terminato il pranzo è ora di ripartire verso una nuova parte, significativa, della storia. Col fuoristrada di Patrizio attraversiamo quello che una volta era il centro di Roio Piano, con l’ormai consueto spettacolo di devastazione, case aperte e squarciate, vegetazione che prende il sopravvento. Prendiamo una strada che tra curve e tornanti sale verso Colle Meruci. Lì patrizio ci mostra il punto da cui tutto è partito: l’epicentro del terremoto. In mezzo a una radura, tra pietre chiare, una lapide con una croce, una lastra con una scritta: “6 Aprile 2009. Ore 3:32”. E non c’è molto da aggiungere, se non un altro numero: 309. Di fronte a me il sole spunta basso tra le nuvole, come a impormi di scattare una foto toccante, alle mie spalle L’Aquila è illuminata da quel timido sole, e pare piccola da qui sopra, ma non abbastanza piccola da farla franca.

Risaliamo in auto e ci dirigiamo verso un’altra piccola frazione devastata. Si chiama Poggio di Roio. Sulla destra, prima della salita che ci porta a quello che ne era il centro, un grande edificio bianco appena restaurato. Sopra di noi ancora lo spettacolo lugubre delle macerie, del tempo fermo a quella notte, a quei venti secondi. Arrivando sulla parte più alta del paese, a sinistra le fondamenta di quelle che erano case: s’intuisce il reticolo di vicoletti che doveva essere un tempo, ma sembra di guardare scavi romani o etruschi. A destra il paesello nuovo, con le case appena tinteggiate e le gru. La  devastazione qui a Poggio di Roio è tale che  domando se qualcuno sia sopravvissuto. In realtà qui fortunatamente c'è stata una sola vittima, in questa piccola frazione vivevano quasi soltanto studenti universitari perché siamo vicini alle sedi di economia e ingegneria di Roio e Monte Luco. La scossa è arrivata nella notte tra la domenica e il lunedì ed erano praticamente tutti  tornati ai loro paesi. Fosse successo in un giorno feriale questo lembo di terra sarebbe stato bagnato da molte più lacrime.

Patrizio ci riporta alla nostra auto, lasciata dalla mattina in Piazza della Fontana Luminosa, e siamo pronti per ripartire e tornarcene a casa. Decidiamo però di fare un’ultima tappa, e di sfruttare gli ultimi minuti di luce disponibile. Max mi guida fino a Tempera, altra piccola frazione di L’Aquila, a due passi da Paganica. Tempera era un meraviglioso paesello, costruito attorno alle acque veloci e cristalline del fiume Vera. Non resta molto dell’originario nucleo longobardo, e troviamo le strade sbarrate: zona rossa. Un grande palazzo alla nostra sinistra, malridotto e reso ancor più tetro dalla luce che sta morendo. Percorriamo la strada che costeggia il fiume, fino ad arrivare a quella che sembra essere la nuova chiesa. Alla sua sinistra il monumento dei caduti: una statua e un orologio fermo alle 3 e 32; era l’orologio della Chiesa di Santa Maria in Tempera, di cui è rimasta solo una ringhiera in ferro. Il parroco si è salvato seguendo il suo cane, che lo ha accompagnato fuori dalla sua casa crollata. Poco più in la un presepe che vale la pena di raccontare: sulla sinistra, sotto la scritta “nascita”, il normale presepe, con la natività, i re magi, i pastori. Sulla destra, sotto la scritta “rinascita”, un presepe moderno che mostra i più importanti edifici religiosi e non di L’Aquila. Un altro messaggio rivolto al futuro. Senza mai dimenticare il passato.

Testo e  fotografie: Tommaso Della Dora.

Si ringraziano per la collaborazione Massimiliano Fiorito, Antonella Marini e Patrizio Cardelli.

#Edit:

L’Aquila, 14 gennaio 2018.

A L’Aquila ci sono un’infinità di cose da fotografare. Non poteva bastare un solo giorno, non ne possono bastare neppure due, ovviamente. Intanto ci sono tornato, e ho colmato qualche lacuna.

L’appuntamento è per le 9 di mattina, con l’immancabile Massimiliano, all’uscita di Basciano. Come sempre Max è puntualissimo, e possiamo partire alla volta del capoluogo abruzzese. La prima tappa fissata è a Paganica, dove la nostra nuova amica Antonella ci porterà a visitare le vie del centro storico distrutto e ci mostrerà anche come la frazione sta rinascendo. Paganica è la più grande delle frazioni di L’Aquila, con i suoi 5000 abitanti. La prima cosa che notiamo, arrivandoci, sono un paio di bellissimi murales. Antonella ci spiega che nel periodo successivo al terremoto diversi artisti si sono recati lì per regalare la loro arte. C’incamminiamo per le strette vie in leggera salita e lo scenario, via via che ci si avvicina alla parte più antica del paese, peggiora. Questo perché, come ci spiega la nostra “guida”, la ricostruzione parte dall’esterno, per poi estendersi verso il centro. Vediamo infatti case nuove di zecca via via diradarsi e lasciare il posto alle immagini che ormai cominciamo tristemente a conoscere bene: edifici sventrati, porte e finestre aperte a mostrare mondi e vite fermatesi a quei 20 secondi, rimaste come congelate e indifferenti allo scorrere del tempo. Antonella ci indica anche la casa in cui viveva sua suocera, quella notte è andata a recuperarla, trovandola fortunatamente viva. Il tempo che si è fermato, qui a Paganica, è rappresentato anche dalle luminarie: le  luci pronte per la Pasqua (che sarebbe arrivata il 12 aprile) sono ancora lì, in bella vista tra gli stretti vicoli del borgo. La vista sul Gran Sasso è suggestiva, contrasta con quanto ci sta intorno e ci colpisce nel profondo. Ogni volta è come la prima volta. Chiudiamo il nostro giro per Paganica con la Chiesa della Concezione: danneggiata in maniera drammatica dal sisma, è stata ristrutturata ed è pronta a tornare alla vita. Simbolo di una ricostruzione che è in atto, sarà lunga ma è in pieno svolgimento. Salutiamo Antonella, ringraziandola per il tempo regalatoci, e ci dirigiamo a L’Aquila, dove ci attende la nostra seconda guida.

Ci incontriamo con Patrizio alla Fontana Luminosa, luogo dal quale era partito anche il mio primo giro aquilano. Per raggiungere la prima storia che voglio vedere (e fotografare) ci addentriamo nelle vie del Centro Storico. Noto da subito che ci sono diversi palazzi ristrutturati e pronti ad essere vissuti, e Patrizio conferma la mia impressione. In questi undici mesi, a quanto posso vedere, la ricostruzione è andata avanti a passo svelto. Passiamo in Piazza del Duomo e vedo, con gioia, che la Chiesa delle Anime Salve è libera dalle impalcature che la bardavano a febbraio dello scorso anno, pronta anche lei a iniziare una nuova vita. A coprire la facciata di un edificio in ristrutturazione alle nostre spalle, una scritta enorme su un telo appoggiato alle impalcature, “L’Aquila rinasce”. Di fronte una gru, come a volerlo confermare, a voler dire: “Stiamo lavorando”.Superata la piazza, dopo qualche centinaia di metri vedo una scritta che conoscevo, e che conosce chiunque abbia seguito, anche distrattamente, questa vicenda. “Palazzo del Governo”. Scoprirò solo dopo che la scritta è esattamente la stessa (…anche se sia Patrizio che Max mi dicono da subito che pensano sia quella), quella che era stata rotta in più punti dallo scuotimento di quella notte. È stata posta lì, dove ha sede ora la Prefettura, nel 2013, dopo essere stata restaurata. Ed è proprio il Palazzo del Governo (o meglio, quello che era il Palazzo del Governo nel 2009) la prima tappa obbligata del mio secondo giro in questa splendida città. È uno dei simboli del terremoto del 2009: doveva essere uno dei punti nevralgici in caso di emergenza, e invece è crollato quasi completamente sotto i colpi delle onde sismiche. Resta solo il piano terra, anch’esso dilaniato. Alle sue spalle la Chiesa di Sant’Agostino, imponente e inquietante, coperta com’è dalle impalcature. Non avevo mai visto questo edificio senza la sua famosa scritta “sgarruppata” e come ogni simbolo che si rispetti mi provoca forti emozioni. Mi fa anche incazzare, almeno finchè Patrizio non mi fa riflettere sul fatto che per determinati uffici si vogliono sempre palazzi storici e di prestigio, e questo tipo di edifici è, gioco forza, fragile. Forse troppo.

Dopo aver fotografato il poco che rimane del Palazzo del Governo, riprendiamo la marcia fino alla prossima tappa. Si va verso la Basilica di Santa Maria di Collemaggio. Un altro simbolo della città. E anche del terremoto. Purtroppo. Ci arriviamo percorrendo un bel marciapiede, con una siepe sulla sinistra e del verde in discesa sulla destra. Terminato questo sentiero la vista è riempita da un grande giardino, con gli alberi su entrambi i lati e, in fondo, al centro, questo capolavoro immortale. La basilica risale al 1288, al suo interno è stato incoronato Papa Celestino V il 29 agosto del 1294 (qui riposano le sue spoglie), ed è sede di un giubileo annuale, il primo della storia, istituito con la Bolla del Perdono del 29 settembre 1294 e noto con il nome di Perdonanza Celestiniana, ragion per cui è caratterizzata anche da una Porta Santa, su una facciata laterale. Non è la prima volta che viene distrutta da un forte terremoto (come tutta L’Aquila, del resto), ragion per cui presenta una considerevole commistione di stili. Nel 2009 è crollata nella parte in corrispondenza all’incontro tra la navata e il transetto, zona di tipica “fragilità geometrica” degli edifici ecclesiastici. È stata riaperta di recente, dopo una massiva ristrutturazione/ricostruzione, nel dicembre del 2017. Ed è una meraviglia da vedere a tutti i costi. La navata è imponente e molto lunga (Max una volta mi disse che ci si potrebbe fare trecking…), percorrendola si sente odore di intonaco e legno nuovi e freschi. Un miracolo restituito al genere umano.

Dopo esserci goduti per molti minuti la meraviglia di Collemaggio risorta, riprendiamo il cammino. Tornando indietro verso le auto, mi cadono gli occhi sui portici che conducono alla Piazza, luogo n cui immagino si svolgesse molta della vita sociale del Centro Storico. Le colonne rinforzate, il silenzio e la solitudine mi portano di nuovo a riflettere su quanto un evento simile sia capace di dilaniare la vita stessa di una comunità. Ci concediamo un caffè e ripercorriamo il centro, passando di fronte alla Villa Comunale, a San Marco, Santa Maria di Paganica. La prossima meraviglia che la città mi deve mostrare è un altro dei suoi simboli. Dopo un breve giro in auto arriviamo alla Fontana delle 99 Cannelle. Non l’avevo mai vista, e come spesso mi accade mi domando perché. È qualcosa di unico, non ho mai visto niente che le somigli. Le 99 cannelle rappresentano i 99 castelli del circondario che, nel XIII secolo, parteciparono alla fondazione della città. Ha riportato solo lievi danni nel 2009, soprattutto sull’ala destra del suo complesso, appoggiata alla cinta muraria della città. È stata poi restaurata quasi completamente mediante donazioni e riaperta già nel dicembre del 2010. Alle nostre spalle un’altra piccola perla, la Chiesta di San Vito alla Rivera, anch’essa completamente restaurata. Al suo interno ritroviamo gli stessi graditi odori sentiti poco prima a Santa Maria di Collemaggio.

È quasi ora di pranzo, e Patrizio con somma gentilezza c’invita a mangiare a casa sua, con la sua famiglia, i suoi cani e i suoi gatti. Vive a Roio Piano, poche centinaia di metri al di sotto dell’epicentro del terremoto, in una villetta meravigliosa che ha resistito benissimo al terremoto. Un tagliere di ottimi formaggi e salumi, un bel piatto di gnocchi fatti in casa al ragù, una grigliata di carne di pecora e agnello in pieno stile abruzzese, tra cordiali chiacchiere e racconti. Mentre sorseggiamo il caffè a fine pasto, la moglie di Patrizio mi mostra la prima pagina del Messaggero Abruzzo. Al centro un articolo che parla del famigerato Giampaolo Giuliani, colui che sostenne (e sostiene anche oggi) di aver previsto la scossa e di essere in grado di prevederne altre, e che in quei giorni di lutto e disperazione era impegnato a chiedere le scuse ufficiali a Bertolaso, che invece mi risulta fosse impegnato in faccende più serie. Leggere oggi quella pagina fa quasi sorridere, a distanza di poco meno di nove anni è ormai evidente che il Giuliani non ha previsto, non prevede, e mai prevederà nulla.

Terminato il pranzo è ora di ripartire verso una nuova parte, significativa, della storia. Col fuoristrada di Patrizio attraversiamo quello che una volta era il centro di Roio Piano, con l’ormai consueto spettacolo di devastazione, case aperte e squarciate, vegetazione che prende il sopravvento. Prendiamo una strada che tra curve e tornanti sale verso Colle Meruci. Lì patrizio ci mostra il punto da cui tutto è partito: l’epicentro del terremoto. In mezzo a una radura, tra pietre chiare, una lapide con una croce, una lastra con una scritta: “6 Aprile 2009. Ore 3:32”. E non c’è molto da aggiungere, se non un altro numero: 309. Di fronte a me il sole spunta basso tra le nuvole, come a impormi di scattare una foto toccante, alle mie spalle L’Aquila è illuminata da quel timido sole, e pare piccola da qui sopra, ma non abbastanza piccola da farla franca.

Risaliamo in auto e ci dirigiamo verso un’altra piccola frazione devastata. Si chiama Poggio di Roio. Sulla destra, prima della salita che ci porta a quello che ne era il centro, un grande edificio bianco appena restaurato. Sopra di noi ancora lo spettacolo lugubre delle macerie, del tempo fermo a quella notte, a quei venti secondi. Arrivando sulla parte più alta del paese, a sinistra le fondamenta di quelle che erano case: s’intuisce il reticolo di vicoletti che doveva essere un tempo, ma sembra di guardare scavi romani o etruschi. A destra il paesello nuovo, con le case appena tinteggiate e le gru. La  devastazione qui a Poggio di Roio è tale che  domando se qualcuno sia sopravvissuto. In realtà qui fortunatamente c'è stata una sola vittima, in questa piccola frazione vivevano quasi soltanto studenti universitari perché siamo vicini alle sedi di economia e ingegneria di Roio e Monte Luco. La scossa è arrivata nella notte tra la domenica e il lunedì ed erano praticamente tutti  tornati ai loro paesi. Fosse successo in un giorno feriale questo lembo di terra sarebbe stato bagnato da molte più lacrime.

Patrizio ci riporta alla nostra auto, lasciata dalla mattina in Piazza della Fontana Luminosa, e siamo pronti per ripartire e tornarcene a casa. Decidiamo però di fare un’ultima tappa, e di sfruttare gli ultimi minuti di luce disponibile. Max mi guida fino a Tempera, altra piccola frazione di L’Aquila, a due passi da Paganica. Tempera era un meraviglioso paesello, costruito attorno alle acque veloci e cristalline del fiume Vera. Non resta molto dell’originario nucleo longobardo, e troviamo le strade sbarrate: zona rossa. Un grande palazzo alla nostra sinistra, malridotto e reso ancor più tetro dalla luce che sta morendo. Percorriamo la strada che costeggia il fiume, fino ad arrivare a quella che sembra essere la nuova chiesa. Alla sua sinistra il monumento dei caduti: una statua e un orologio fermo alle 3 e 32; era l’orologio della Chiesa di Santa Maria in Tempera, di cui è rimasta solo una ringhiera in ferro. Il parroco si è salvato seguendo il suo cane, che lo ha accompagnato fuori dalla sua casa crollata. Poco più in la un presepe che vale la pena di raccontare: sulla sinistra, sotto la scritta “nascita”, il normale presepe, con la natività, i re magi, i pastori. Sulla destra, sotto la scritta “rinascita”, un presepe moderno che mostra i più importanti edifici religiosi e non di L’Aquila. Un altro messaggio rivolto al futuro. Senza mai dimenticare il passato.

Testo e  fotografie: Tommaso Della Dora.

Si ringraziano per la collaborazione Massimiliano Fiorito, Antonella Marini e Patrizio Cardelli.

Murales a Paganica.
Murales a Paganica.
La casa in cui fino al 6 aprile ha vissuto la suocera di Antonella.
La casa in cui fino al 6 aprile ha vissuto la suocera di Antonella.
Le macerie e, sullo sfondo, la meraviglia del Gran Sasso.
Le macerie e, sullo sfondo, la meraviglia del Gran Sasso.
Le luminarie, pronte le per la Pasqua, sono ancora lì.
Le luminarie, pronte le per la Pasqua, sono ancora lì.
Anche qui a Paganica il tempo pare essersi fermato in quel momento.
Anche qui a Paganica il tempo pare essersi fermato in quel momento.
La periferia di Paganica prende forma.
La periferia di Paganica prende forma.
La Chiesa della Concezione di Paganica ristrutturata.
La Chiesa della Concezione di Paganica ristrutturata.
La Fontana Luminosa.
La Fontana Luminosa.
Uno dei tanti palazzi ristrutturati nel Centro Storico di L'Aquila.
Uno dei tanti palazzi ristrutturati nel Centro Storico di L'Aquila.
Piazza del Duomo, la Chiesa della Anime Salve è libera dalle impalcature.
Piazza del Duomo, la Chiesa della Anime Salve è libera dalle impalcature.
"L'Aquila rinasce"
"L'Aquila rinasce"
La vecchia scritta Palazzo del Governo, restaurata, sull'edificio che ospita ora la prefettura.
La vecchia scritta Palazzo del Governo, restaurata, sull'edificio che ospita ora la prefettura.
Il Palazzo del Governo, senza la sua scritta. Alle sue spalle incombe la Chiesa di Sant'Agostino.
Il Palazzo del Governo, senza la sua scritta. Alle sue spalle incombe la Chiesa di Sant'Agostino.
La Basilica di Santa Maria di Collemaggio.
La Basilica di Santa Maria di Collemaggio.
I portici.
I portici.
Santa Maria di Paganica.
Santa Maria di Paganica.
San Marco.
San Marco.
La Fontana delle 99 Cannelle.
La Fontana delle 99 Cannelle.
La Chiesa di San Vito alla Rivera.
La Chiesa di San Vito alla Rivera.
Patrizio ci accoglie in casa.
Patrizio ci accoglie in casa.
La prima pagina del Messaggero-Abruzzo del 6 aprile 2009, con le recriminazioni di Giampaolo Giuliani.
La prima pagina del Messaggero-Abruzzo del 6 aprile 2009, con le recriminazioni di Giampaolo Giuliani.
Roio Piano.
Roio Piano.
L'epicentro, in località Colle Meruci.
L'epicentro, in località Colle Meruci.
Un edificio appena restaurato alle porte di Poggio di Roio.
Un edificio appena restaurato alle porte di Poggio di Roio.
Poggio di Roio, alle 3 e 32 tutto si è fermato.
Poggio di Roio, alle 3 e 32 tutto si è fermato.
Poggio di Roio, alle 3 e 32 tutto si è fermato.
Ciò che rimane di quelli che dovevano essere i vicoli e le case di Poggio di Roio.
Ciò che rimane di quelli che dovevano essere i vicoli e le case di Poggio di Roio.
Ciò che rimane di quelli che dovevano essere i vicoli e le case di Poggio di Roio.
La nuova Poggio di Roio.
La nuova Poggio di Roio.
La nuova Poggio di Roio.
Tempera, il fiume Vera ci accoglie col rumore delle sue acque veloci.
Tempera, il fiume Vera ci accoglie col rumore delle sue acque veloci.
Tempera, il fiume Vera ci accoglie col rumore delle sue acque veloci.
Ruderi a Tempera.
Ruderi a Tempera.
Ruderi a Tempera.
In ricordo delle 8 vittime di Tempera. L'orologio fermo alle 3 e 32 è quello della chiesa di Santa Maria in Tempera, distrutta dal terremoto.
In ricordo delle 8 vittime di Tempera. L'orologio fermo alle 3 e 32 è quello della chiesa di Santa Maria in Tempera, distrutta dal terremoto.
In ricordo delle 8 vittime di Tempera. L'orologio fermo alle 3 e 32 è quello della chiesa di Santa Maria in Tempera, distrutta dal terremoto.
Il presepe di Tempera.
Il presepe di Tempera.
Il presepe di Tempera.
#edit 2

L’Aquila, 30 aprile 2018.

Sono le otto del mattino, e sono di nuovo in viaggio verso Basciano. Lì m’incontrerò col mio ormai inseparabile compagno d’avventure Massimiliano, e insieme affronteremo il mio terzo giro aquilano. Come al solito Max è puntualissimo e alle 9 possiamo partire verso il capoluogo abruzzese. Arriviamo intorno alle 10 a Paganica, dove abbiamo appuntamento con Antonella, che oggi ci dedicherà buona parte della giornata e ci farà da guida.

La prima tappa del viaggio odierno è a Onna. C’ero già stato lo scorso anno, ma non avevo fotografato tutto ciò che d’importante c’era da vedere e raccontare. Mi ero concentrato molto sulla distruzione della “vecchia” Onna e poco sulla ricostruzione. Dopo aver letto tutto d’un fiato il libro “Quant’era bella la mia Onna” di Giustino Parisse mi sono reso conto che sarebbe stato profondamente ingiusto non raccontare anche come quella piccola comunità stia, con fatica, rinascendo. Andiamo di nuovo in giro per le vie della vecchia Onna, ma questa volta non mi soffermo a fotografare la distruzione dello “scossone orrendo”, questa volta so già cosa voglio mostrare. La prima tappa è la chiesa di San Pietro Apostolo, ricostruita grazie ai fondi raccolti da autorità tedesche, forse a fare ammenda per la strage perpetrata dai nazisti proprio a Onna, l’11 giugno del 1944, giorno in cui vennero fucilati 17 onnesi. La chiesa tra l’altro ha una particolarità legata al terremoto: proprio in seguito alla scossa del 6 aprile 2009 sono stati rinvenuti affreschi del 1400. La chiesa è stata ricostruita mantenendo le forme che la caratterizzavano prima del crollo, è semplice, lineare, quasi austera. Pochi metri più avanti, CasaOnna, la casa comunale, costruita anch’essa con fondi tedeschi. Dopo aver fotografato questi due edifici, camminiamo verso la “nuova” Onna, dove si trova la nuova scuola materna, intitolata a Giulia Carnevale. Giulia era una studentessa di architettura dell’Università di L’Aquila, è morta sotto le macerie della sua casa ma sua madre nel suo PC ha rinvenuto dei file, tra i quali un progetto per una scuola bellissima, a forma di libro. Quella scuola, progettata da questa giovane studentessa, è stata realizzata proprio qui, grazie a una sottoscrizione lanciata da Bruno Vespa un mese dopo il terremoto.

Ripresa l’automobile, ripartiamo alla volta di L’Aquila. La seconda tappa è la chiesa di San Bernardino, forse la più amata dagli aquilani. È riaperta fortunatamente da tempo, dal 2 maggio 2015, e da quel giorno è tornata a ospitare le spoglie del famoso santo senese. Era stata danneggiata in maniera importante soprattutto nella parte della cupola, che aveva subito gravissime lesioni, e nella torre campanaria, che era quasi totalmente crollata. Ora è tornata al suo splendore, con la sua facciata di marmo chiaro, imponente e luminosa, e la sua ampia e altissima navata. Accanto a San Bernardino, in totale contrasto, le ferraglie che racchiudono e nascondono in buona parte la pericolante scuola De Amicis, luogo in cui studiavano centinaia di ragazzini aquilani e all’interno dei quali portava avanti i suoi discutibili studi il famoso Giampaolo Giuliani. Il Giuliani è un tecnico di laboratorio in pensione, che all’incirca nel 2002 iniziò a studiare le variazioni del gas radon, sostenendo di essere in grado di prevedere terremoti analizzandole. Nel 2009 affermò a più riprese di aver previsto quel terremoto tremendo, ma le dichiarazioni pubbliche rese prima e dopo la scossa dicono totalmente il contrario: una settimana prima tranquillizzava i suoi concittadini dicendo, in un’intervista, che lo sciame sismico in atto sarebbe presto divenuto solo un ricordo. All’indomani della tragedia, intervistato da Bruno Vespa, affermò di aver visto e previsto tutto col “suo” radon, ma anche di essersi preso il terremoto in casa con la sua famiglia. Non so voi, ma io se sono sulle rotaie e arriva il treno a tutta velocità, di sicuro non resto sulle rotaie.

Si riparte. La tappa successiva è Villa Sant’Angelo, uno dei centri più colpiti dal sisma del 2009, che si è portato via 17 dei suoi abitanti. Per strada mi fermo a fotografare un complesso del progetto C.A.S.E., quello di Bazzano, il primo ad essere inaugurato. Questi condominii sono stati edificati sotto l’egida della Protezione Civile di Guido Bertolaso e del Governo Berlusconi in un centinaio di giorni, garantendo un tetto e una sistemazione dignitosi alle decine di migliaia di sfollati rimasti senza una casa. Non so dire se questa sia una situazione perfetta (il tessuto sociale, con la quasi completa delocalizzazione e l’assenza di punti di ritrovo in questi complessi, ne ha sofferto non poco, mentre dal punto di vista pratico la soluzione adottata mi pare abbia garantito una vita dignitosa a tutti in un tempo decente), ma mi pare chiaro che fu almeno una soluzione.

Prima di arrivare a Villa Sant’Angelo facciamo tappa a Casentino, un piccolo poco distante. La situazione è la stessa che ho riscontrato in molte delle frazioni di L’Aquila: macerie, distruzione, abbandono, il tempo che si è fermato a quella manciata di secondi. Un alto campanile, una chiesa puntellata e aperta a mostrare il suo interno, quella che doveva essere un tempo una piccola piazza, l’unico segno di vita delle galline, all’interno di un edificio chiaramente inagibile.

Ancora qualche chilometro in auto e raggiungiamo Villa Sant’Angelo. Qui la ricostruzione sembra essere a buon punto, sono ancora visibili scheletri di palazzi, la distruzione è evidentissima, ma ci sono anche tantissimi edifici nuovi di zecca e pronti per essere consegnati. Inoltre i danni sembrano concentrati sulla prima parte del paese, mentre continuando sulla strada principale, via via l’edificato sembra aver retto meglio l’urto delle onde sismiche. Mentre giriamo per il paese e scatto foto, una signora anziana mi urla, sorridendo, “Non fare le foto, rifammi la chiesa!”. Mi sta chiedendo scherzosamente di restituirle la sua chiesa, Santa Maria Delle Grazie, alla quale è evidentemente molto affezionata, anche per via della processione legata a questo luogo di culto. Solo girando per i luoghi colpiti da queste tragedie io, anticlericale convinto, ho compreso l’importanza sociale delle chiede come luogo di ritrovo e comunanza. La simpatica signora ci racconta poi dei ritardi nella consegna delle nuove abitazioni, ma sempre col sorriso e senza lamentarsene. Prima di congedarci conferma la mia impressione sui crolli delimitati a una zona circoscritta del paese.

È ora di pranzo, e dobbiamo cercare qualcuno che ci dia qualcosa da mangiare. Nel primo agriturismo che troviamo niente da fare, al secondo invece troviamo posto. Siamo a Stiffe, famosa per le sue grotte. Il paese pare integro, il ristorante ha la particolarità di un allevamento di trote al suo interno. Mi mangio una grigliata (ho imparato ad amare le grigliate abruzzesi, nelle quali agnello e pecora la fanno da padrone), e dopo un’oretta di pausa tra chiacchiere e risate io e i miei accompagnatori siamo pronti a ripartire.

Altro giro, altra frazione. Antonella ci guida a San Gregorio, poco distante da Paganica. Anche qui il terremoto ha colpito duramente, distruggendo quasi completamente il centro storico, la Chiesa di San Gregorio Magno e portandosi via 14 abitanti. Ci sono gru al lavoro, salta agli occhi la distruzione totale, di molti edifici non resta che una facciata, anche qui tutto si è fermato.

Ci avviamo verso l’ultima tappa del viaggio di oggi. Anche questa un ritorno. Torniamo a Tempera, la frazione di cui è originaria Antonella. La nostra amica ci guida attraverso quello che un tempo ne era il centro pulsante, la zona della chiesa di Santa Maria in Tempera. Di questa non restano altro che una ringhiera metallica, una scalinata e il pavimento, il terremoto l’ha completamente spazzata via, non lasciandone altro che il ricordo in chi l’amava e la viveva. Intorno ruderi, case aperte e squarciate, mobili consumati dal tempo, addirittura un set di pentole che esce da una credenza e va verso il nulla di una parete che non c’è più. Doveva essere proprio bella, Tempera. Ora, semplicemente, non è più. O meglio, si è spostata.

Testo e fotografie: Tommaso Della Dora.

Si ringraziano per la collaborazione Massimiliano Fiorito e Antonella Marini.
#edit 2

L’Aquila, 30 aprile 2018.

Sono le otto del mattino, e sono di nuovo in viaggio verso Basciano. Lì m’incontrerò col mio ormai inseparabile compagno d’avventure Massimiliano, e insieme affronteremo il mio terzo giro aquilano. Come al solito Max è puntualissimo e alle 9 possiamo partire verso il capoluogo abruzzese. Arriviamo intorno alle 10 a Paganica, dove abbiamo appuntamento con Antonella, che oggi ci dedicherà buona parte della giornata e ci farà da guida.

La prima tappa del viaggio odierno è a Onna. C’ero già stato lo scorso anno, ma non avevo fotografato tutto ciò che d’importante c’era da vedere e raccontare. Mi ero concentrato molto sulla distruzione della “vecchia” Onna e poco sulla ricostruzione. Dopo aver letto tutto d’un fiato il libro “Quant’era bella la mia Onna” di Giustino Parisse mi sono reso conto che sarebbe stato profondamente ingiusto non raccontare anche come quella piccola comunità stia, con fatica, rinascendo. Andiamo di nuovo in giro per le vie della vecchia Onna, ma questa volta non mi soffermo a fotografare la distruzione dello “scossone orrendo”, questa volta so già cosa voglio mostrare. La prima tappa è la chiesa di San Pietro Apostolo, ricostruita grazie ai fondi raccolti da autorità tedesche, forse a fare ammenda per la strage perpetrata dai nazisti proprio a Onna, l’11 giugno del 1944, giorno in cui vennero fucilati 17 onnesi. La chiesa tra l’altro ha una particolarità legata al terremoto: proprio in seguito alla scossa del 6 aprile 2009 sono stati rinvenuti affreschi del 1400. La chiesa è stata ricostruita mantenendo le forme che la caratterizzavano prima del crollo, è semplice, lineare, quasi austera. Pochi metri più avanti, CasaOnna, la casa comunale, costruita anch’essa con fondi tedeschi. Dopo aver fotografato questi due edifici, camminiamo verso la “nuova” Onna, dove si trova la nuova scuola materna, intitolata a Giulia Carnevale. Giulia era una studentessa di architettura dell’Università di L’Aquila, è morta sotto le macerie della sua casa ma sua madre nel suo PC ha rinvenuto dei file, tra i quali un progetto per una scuola bellissima, a forma di libro. Quella scuola, progettata da questa giovane studentessa, è stata realizzata proprio qui, grazie a una sottoscrizione lanciata da Bruno Vespa un mese dopo il terremoto.

Ripresa l’automobile, ripartiamo alla volta di L’Aquila. La seconda tappa è la chiesa di San Bernardino, forse la più amata dagli aquilani. È riaperta fortunatamente da tempo, dal 2 maggio 2015, e da quel giorno è tornata a ospitare le spoglie del famoso santo senese. Era stata danneggiata in maniera importante soprattutto nella parte della cupola, che aveva subito gravissime lesioni, e nella torre campanaria, che era quasi totalmente crollata. Ora è tornata al suo splendore, con la sua facciata di marmo chiaro, imponente e luminosa, e la sua ampia e altissima navata. Accanto a San Bernardino, in totale contrasto, le ferraglie che racchiudono e nascondono in buona parte la pericolante scuola De Amicis, luogo in cui studiavano centinaia di ragazzini aquilani e all’interno dei quali portava avanti i suoi discutibili studi il famoso Giampaolo Giuliani. Il Giuliani è un tecnico di laboratorio in pensione, che all’incirca nel 2002 iniziò a studiare le variazioni del gas radon, sostenendo di essere in grado di prevedere terremoti analizzandole. Nel 2009 affermò a più riprese di aver previsto quel terremoto tremendo, ma le dichiarazioni pubbliche rese prima e dopo la scossa dicono totalmente il contrario: una settimana prima tranquillizzava i suoi concittadini dicendo, in un’intervista, che lo sciame sismico in atto sarebbe presto divenuto solo un ricordo. All’indomani della tragedia, intervistato da Bruno Vespa, affermò di aver visto e previsto tutto col “suo” radon, ma anche di essersi preso il terremoto in casa con la sua famiglia. Non so voi, ma io se sono sulle rotaie e arriva il treno a tutta velocità, di sicuro non resto sulle rotaie.

Si riparte. La tappa successiva è Villa Sant’Angelo, uno dei centri più colpiti dal sisma del 2009, che si è portato via 17 dei suoi abitanti. Per strada mi fermo a fotografare un complesso del progetto C.A.S.E., quello di Bazzano, il primo ad essere inaugurato. Questi condominii sono stati edificati sotto l’egida della Protezione Civile di Guido Bertolaso e del Governo Berlusconi in un centinaio di giorni, garantendo un tetto e una sistemazione dignitosi alle decine di migliaia di sfollati rimasti senza una casa. Non so dire se questa sia una situazione perfetta (il tessuto sociale, con la quasi completa delocalizzazione e l’assenza di punti di ritrovo in questi complessi, ne ha sofferto non poco, mentre dal punto di vista pratico la soluzione adottata mi pare abbia garantito una vita dignitosa a tutti in un tempo decente), ma mi pare chiaro che fu almeno una soluzione.

Prima di arrivare a Villa Sant’Angelo facciamo tappa a Casentino, un piccolo poco distante. La situazione è la stessa che ho riscontrato in molte delle frazioni di L’Aquila: macerie, distruzione, abbandono, il tempo che si è fermato a quella manciata di secondi. Un alto campanile, una chiesa puntellata e aperta a mostrare il suo interno, quella che doveva essere un tempo una piccola piazza, l’unico segno di vita delle galline, all’interno di un edificio chiaramente inagibile.

Ancora qualche chilometro in auto e raggiungiamo Villa Sant’Angelo. Qui la ricostruzione sembra essere a buon punto, sono ancora visibili scheletri di palazzi, la distruzione è evidentissima, ma ci sono anche tantissimi edifici nuovi di zecca e pronti per essere consegnati. Inoltre i danni sembrano concentrati sulla prima parte del paese, mentre continuando sulla strada principale, via via l’edificato sembra aver retto meglio l’urto delle onde sismiche. Mentre giriamo per il paese e scatto foto, una signora anziana mi urla, sorridendo, “Non fare le foto, rifammi la chiesa!”. Mi sta chiedendo scherzosamente di restituirle la sua chiesa, Santa Maria Delle Grazie, alla quale è evidentemente molto affezionata, anche per via della processione legata a questo luogo di culto. Solo girando per i luoghi colpiti da queste tragedie io, anticlericale convinto, ho compreso l’importanza sociale delle chiede come luogo di ritrovo e comunanza. La simpatica signora ci racconta poi dei ritardi nella consegna delle nuove abitazioni, ma sempre col sorriso e senza lamentarsene. Prima di congedarci conferma la mia impressione sui crolli delimitati a una zona circoscritta del paese.

È ora di pranzo, e dobbiamo cercare qualcuno che ci dia qualcosa da mangiare. Nel primo agriturismo che troviamo niente da fare, al secondo invece troviamo posto. Siamo a Stiffe, famosa per le sue grotte. Il paese pare integro, il ristorante ha la particolarità di un allevamento di trote al suo interno. Mi mangio una grigliata (ho imparato ad amare le grigliate abruzzesi, nelle quali agnello e pecora la fanno da padrone), e dopo un’oretta di pausa tra chiacchiere e risate io e i miei accompagnatori siamo pronti a ripartire.

Altro giro, altra frazione. Antonella ci guida a San Gregorio, poco distante da Paganica. Anche qui il terremoto ha colpito duramente, distruggendo quasi completamente il centro storico, la Chiesa di San Gregorio Magno e portandosi via 14 abitanti. Ci sono gru al lavoro, salta agli occhi la distruzione totale, di molti edifici non resta che una facciata, anche qui tutto si è fermato.

Ci avviamo verso l’ultima tappa del viaggio di oggi. Anche questa un ritorno. Torniamo a Tempera, la frazione di cui è originaria Antonella. La nostra amica ci guida attraverso quello che un tempo ne era il centro pulsante, la zona della chiesa di Santa Maria in Tempera. Di questa non restano altro che una ringhiera metallica, una scalinata e il pavimento, il terremoto l’ha completamente spazzata via, non lasciandone altro che il ricordo in chi l’amava e la viveva. Intorno ruderi, case aperte e squarciate, mobili consumati dal tempo, addirittura un set di pentole che esce da una credenza e va verso il nulla di una parete che non c’è più. Doveva essere proprio bella, Tempera. Ora, semplicemente, non è più. O meglio, si è spostata.

Testo e fotografie: Tommaso Della Dora.

Si ringraziano per la collaborazione Massimiliano Fiorito e Antonella Marini.
Tempera
Tempera
Santa Maria in Tempera
Santa Maria in Tempera
San Gregorio
San Gregorio
Villa Sant’Angelo
Villa Sant’Angelo
Casentino
Casentino
C.A.S.E. a Bazzano
C.A.S.E. a Bazzano
San Bernardino
San Bernardino
CasaOnna
CasaOnna
La scuola intitolata a Giulia Carnevale, a Onna
La scuola intitolata a Giulia Carnevale, a Onna
Targa in memoria delle vittime della strage nazista di Onna del 1944
Targa in memoria delle vittime della strage nazista di Onna del 1944
La chiesa di San Pietro Apostolo
La chiesa di San Pietro Apostolo
#Edit 3

L’AQUILA, 30 giugno 2018


Siamo di nuovo in viaggio. Siamo sempre io e Massimiliano, ma oggi con noi c’è anche il suo nipotino, Emanuele. Ci vediamo come al solito al bar dell’uscita autostradale di Basciano, alle 9. E come al solito siamo entrambi in anticipo. Il solito tratto autostradale, fino ad Assergi, poi qualche altro chilometro per arrivare a L’Aquila. Oggi visiteremo qualche altro piccolo comune dell’aquilano, colpito duramente la notte del 6 aprile 2009, e vedremo altre cose interessanti.

Iniziamo il nostro giro da Poggio Picenze, un piccolo comune di circa 1000 abitanti, vicinissimo al capoluogo abruzzese. Il centro storico è ancora zona rossa e non ci è permesso visitarlo, possiamo però vedere ancora benissimo l’effetto del terremoto, passando per una via laterale e poi arrivando alla chiesa, che è imponente e bellissima, anche se fortemente danneggiata: San Felice Martire ha un’importante facciata rinascimentale del 500, postuma rispetto alla costruzione della chiesa, che risale a 400 anni prima. Il campanile è bloccato da tiranti, le crepe sono evidentissime. Sul suo lato destro quella che è ora la chiesa del paese, una chiesa temporanea come ne ho viste tante girando per le zone terremotate. Proprio al centro, sopra la nuova costruzione svetta il campanile della vecchia. Dietro di noi un parco giochi.

Il secondo luogo che andiamo a visitare è Castelnuovo, una frazione del vicino comune di San Pio delle Camere. È stata danneggiata in modo pesantissimo il 6 aprile del 2009, ed esattamente come a Poggio Picenze, anche qui cinque persone non ce l’hanno fatta. Anche qui il nucleo centrale della frazione è ancor oggi zona rossa, e per fotografarne una parte dobbiamo aggirarlo passando da sopra e fotografando dall’alto: è impressionante come dopo 9 anni la situazione sia ancora cristallizzata, con cumuli di macerie a terra e oggetti vari, dai materassi ai mobili, abbandonati. La sensazione che ho provato tante volte, quella del tempo che si è fermato, qui è ancor più forte che altrove, davanti ai miei occhi scene che ho visto in altre zone, colpite molto più recentemente.

Dopo queste due veloci tappe, decidiamo di visitare una meraviglia del territorio aquilano, molto vicina al capoluogo e meta di turismo piuttosto famosa, la Rocca di Calascio. Saliamo tra i tornanti della montagna fino a raggiungere il borgo medievale, ancora abitato da qualcuno e nel quale sono presenti bar e ristoranti incantevoli. Saliamo a piedi oltre il borgo fino ai 1450 metri della Rocca. È un luogo magico, unico nel suo genere, nulla a che vedere con i castelli che mi era già capitato di visitare: siamo in cima a uno sperone di roccia, a 360 gradi le montagne, le colline, i paesi. Di fronte a noi un castello che ha quasi mille anni, e che non è stato in alcun modo colpito dal terremoto del 2009 (è si in buona parte un cumulo di ruderi, fatta eccezione per il nucleo centrale, conservato benissimo, ma era così già prima). Camminando per le varie parti del complesso mi tornano alla mente le immagini del film d’amore più bello che io abbia mai visto, Ladyhawk, ricordando quando lo guardavo da bambino sul divano, in braccio a mio padre. È stato girato qui, e la cosa mi rende ancor più magica l’atmosfera del luogo. in alcun modo colpito dal terremoto del 2009 (è si in buona parte un cumulo di ruderi, fatta eccezione per il nucleo centrale, conservato benissimo, ma era così già prima). Camminando per le varie parti del complesso mi tornano alla mente le immagini del film d’amore più bello che io abbia mai visto, Ladyhawk, ricordando quando lo guardavo da bambino sul divano, in braccio a mio padre. È stato girato qui, e la cosa mi rende ancor più magica l’atmosfera del luogo.

Scendendo a valle, ci fermiamo in uno dei borghi più belli dell’Abruzzo, Santo Stefano di Sessanio. Le sue vie strette e le sue tipiche gelaterie che servono il loro gelato di produzione artigianale in vasetti di coccio sono incantevoli. Anche qui il terremoto si è fatto sentire, anche se in maniera molto meno violenta rispetto alla conca aquilana: sono tanti gli edifici puntellati e messi in sicurezza, ma soprattutto spiacca un’assenza, quella della Torre Medicea, simbolo del borgo, che ora è solo lo scheletro della struttura dalla quale ripartirà la sua ricostruzione.

Prima di fermarci da qualche parte per pranzo, visitiamo un altro piccolo comune, Fossa. Qui non c’è nessuna delimitazione, si può girare liberamente anche se l’edificato è stato danneggiato in maniera impressionante da quella manciata di secondi orribili del 2009. Spiccano le messe in sicurezza a cura di vari distaccamenti dei vigili del fuoco, regna il silenzio (spettrale, veramente incredibile), non c’è veramente anima viva. Giriamo per le vie del paese in completa solitudine, osservando ciò che ci sta attorno. Accanto alla chiesa, sulla porta di quella che ne era la sagrestia, un cartello avvisa che non c’è più nulla da prendere, è già stato rubato tutto. E io penso che bisogna essere molto forti per essere ironici anche in una situazione simile. Anche qui la chiesa è imponente e molto bella, anche qui seriamente danneggiata e ovviamente chiusa. Tutto è danneggiato, non ci sono edifici che ne sono usciti indenni. Le porte aperte lasciano intravvedere l’interno delle case, il tempo congelato da quei secondi terribili.

Dopo una veloce pausa pranzo, torniamo in strada per raggiungere un altro obiettivo che mi ero prefissato. Nel complesso C.A.S.E. di Cese di Preturo, frazione di L’Aquila a due passi dall’aeroporto, un terrazzo ha rischiato di crollare. Va detto che è l’unico caso in una situazione in cui decine di migliaia di persone vivono in situazioni abitative simili senza troppi problemi (e, sinceramente, questi aglomerati urbani posticci, per quanto poco curati e privi di luoghi d’incontro, mi sembrano migliori dei villaggi di casette improvvisati dopo il terremoto del centro Italia… e sono anche stati consegnati in pochi mesi, a differenza delle SAE, che ancor oggi, a quasi due anni del terremoto, non sono state tutte consegnate). È ancora ben visibile il terrazzino incriminato, sorretto e puntellato da strutture in ferro. Ci vivono ancora, nonostante in un primo tempo la struttura fosse stata sequestrata. Non so bene cosa pensare di questa vicenda, ma sinceramente immagino ci sia stato un errore umano, e immagino anche che uno su migliaia non sia in fondo un sintomo di pressapochismo, quanto un caso statisticamente quasi normale.

Prima di tornarcene a casa, proviamo a salire sul Monte Luco, nella speranza di scattare qualche foto di L’Aquila dall’alto. Non ci riusciremo (la folta vegetazione non offre punti di osservazione interessanti) ma arriveremo fino in cima, e vedremo la facoltà d’ingegneria, risistemata dopo che nel 2009 se l’era passata davvero male.

Testo e immagini: Tommaso Della Dora

Si ringraziano per la collaborazione: Massimiliano Fiorito e Antonella Marini
#Edit 3

L’AQUILA, 30 giugno 2018


Siamo di nuovo in viaggio. Siamo sempre io e Massimiliano, ma oggi con noi c’è anche il suo nipotino, Emanuele. Ci vediamo come al solito al bar dell’uscita autostradale di Basciano, alle 9. E come al solito siamo entrambi in anticipo. Il solito tratto autostradale, fino ad Assergi, poi qualche altro chilometro per arrivare a L’Aquila. Oggi visiteremo qualche altro piccolo comune dell’aquilano, colpito duramente la notte del 6 aprile 2009, e vedremo altre cose interessanti.

Iniziamo il nostro giro da Poggio Picenze, un piccolo comune di circa 1000 abitanti, vicinissimo al capoluogo abruzzese. Il centro storico è ancora zona rossa e non ci è permesso visitarlo, possiamo però vedere ancora benissimo l’effetto del terremoto, passando per una via laterale e poi arrivando alla chiesa, che è imponente e bellissima, anche se fortemente danneggiata: San Felice Martire ha un’importante facciata rinascimentale del 500, postuma rispetto alla costruzione della chiesa, che risale a 400 anni prima. Il campanile è bloccato da tiranti, le crepe sono evidentissime. Sul suo lato destro quella che è ora la chiesa del paese, una chiesa temporanea come ne ho viste tante girando per le zone terremotate. Proprio al centro, sopra la nuova costruzione svetta il campanile della vecchia. Dietro di noi un parco giochi.

Il secondo luogo che andiamo a visitare è Castelnuovo, una frazione del vicino comune di San Pio delle Camere. È stata danneggiata in modo pesantissimo il 6 aprile del 2009, ed esattamente come a Poggio Picenze, anche qui cinque persone non ce l’hanno fatta. Anche qui il nucleo centrale della frazione è ancor oggi zona rossa, e per fotografarne una parte dobbiamo aggirarlo passando da sopra e fotografando dall’alto: è impressionante come dopo 9 anni la situazione sia ancora cristallizzata, con cumuli di macerie a terra e oggetti vari, dai materassi ai mobili, abbandonati. La sensazione che ho provato tante volte, quella del tempo che si è fermato, qui è ancor più forte che altrove, davanti ai miei occhi scene che ho visto in altre zone, colpite molto più recentemente.

Dopo queste due veloci tappe, decidiamo di visitare una meraviglia del territorio aquilano, molto vicina al capoluogo e meta di turismo piuttosto famosa, la Rocca di Calascio. Saliamo tra i tornanti della montagna fino a raggiungere il borgo medievale, ancora abitato da qualcuno e nel quale sono presenti bar e ristoranti incantevoli. Saliamo a piedi oltre il borgo fino ai 1450 metri della Rocca. È un luogo magico, unico nel suo genere, nulla a che vedere con i castelli che mi era già capitato di visitare: siamo in cima a uno sperone di roccia, a 360 gradi le montagne, le colline, i paesi. Di fronte a noi un castello che ha quasi mille anni, e che non è stato in alcun modo colpito dal terremoto del 2009 (è si in buona parte un cumulo di ruderi, fatta eccezione per il nucleo centrale, conservato benissimo, ma era così già prima). Camminando per le varie parti del complesso mi tornano alla mente le immagini del film d’amore più bello che io abbia mai visto, Ladyhawk, ricordando quando lo guardavo da bambino sul divano, in braccio a mio padre. È stato girato qui, e la cosa mi rende ancor più magica l’atmosfera del luogo. in alcun modo colpito dal terremoto del 2009 (è si in buona parte un cumulo di ruderi, fatta eccezione per il nucleo centrale, conservato benissimo, ma era così già prima). Camminando per le varie parti del complesso mi tornano alla mente le immagini del film d’amore più bello che io abbia mai visto, Ladyhawk, ricordando quando lo guardavo da bambino sul divano, in braccio a mio padre. È stato girato qui, e la cosa mi rende ancor più magica l’atmosfera del luogo.

Scendendo a valle, ci fermiamo in uno dei borghi più belli dell’Abruzzo, Santo Stefano di Sessanio. Le sue vie strette e le sue tipiche gelaterie che servono il loro gelato di produzione artigianale in vasetti di coccio sono incantevoli. Anche qui il terremoto si è fatto sentire, anche se in maniera molto meno violenta rispetto alla conca aquilana: sono tanti gli edifici puntellati e messi in sicurezza, ma soprattutto spiacca un’assenza, quella della Torre Medicea, simbolo del borgo, che ora è solo lo scheletro della struttura dalla quale ripartirà la sua ricostruzione.

Prima di fermarci da qualche parte per pranzo, visitiamo un altro piccolo comune, Fossa. Qui non c’è nessuna delimitazione, si può girare liberamente anche se l’edificato è stato danneggiato in maniera impressionante da quella manciata di secondi orribili del 2009. Spiccano le messe in sicurezza a cura di vari distaccamenti dei vigili del fuoco, regna il silenzio (spettrale, veramente incredibile), non c’è veramente anima viva. Giriamo per le vie del paese in completa solitudine, osservando ciò che ci sta attorno. Accanto alla chiesa, sulla porta di quella che ne era la sagrestia, un cartello avvisa che non c’è più nulla da prendere, è già stato rubato tutto. E io penso che bisogna essere molto forti per essere ironici anche in una situazione simile. Anche qui la chiesa è imponente e molto bella, anche qui seriamente danneggiata e ovviamente chiusa. Tutto è danneggiato, non ci sono edifici che ne sono usciti indenni. Le porte aperte lasciano intravvedere l’interno delle case, il tempo congelato da quei secondi terribili.

Dopo una veloce pausa pranzo, torniamo in strada per raggiungere un altro obiettivo che mi ero prefissato. Nel complesso C.A.S.E. di Cese di Preturo, frazione di L’Aquila a due passi dall’aeroporto, un terrazzo ha rischiato di crollare. Va detto che è l’unico caso in una situazione in cui decine di migliaia di persone vivono in situazioni abitative simili senza troppi problemi (e, sinceramente, questi aglomerati urbani posticci, per quanto poco curati e privi di luoghi d’incontro, mi sembrano migliori dei villaggi di casette improvvisati dopo il terremoto del centro Italia… e sono anche stati consegnati in pochi mesi, a differenza delle SAE, che ancor oggi, a quasi due anni del terremoto, non sono state tutte consegnate). È ancora ben visibile il terrazzino incriminato, sorretto e puntellato da strutture in ferro. Ci vivono ancora, nonostante in un primo tempo la struttura fosse stata sequestrata. Non so bene cosa pensare di questa vicenda, ma sinceramente immagino ci sia stato un errore umano, e immagino anche che uno su migliaia non sia in fondo un sintomo di pressapochismo, quanto un caso statisticamente quasi normale.

Prima di tornarcene a casa, proviamo a salire sul Monte Luco, nella speranza di scattare qualche foto di L’Aquila dall’alto. Non ci riusciremo (la folta vegetazione non offre punti di osservazione interessanti) ma arriveremo fino in cima, e vedremo la facoltà d’ingegneria, risistemata dopo che nel 2009 se l’era passata davvero male.

Testo e immagini: Tommaso Della Dora

Si ringraziano per la collaborazione: Massimiliano Fiorito e Antonella Marini
#edit 4

L’AQUILA, 5 E 6 APRILE 2019.

DIECI ANNI.



Da un paio di mesi ho iniziato a organizzarmi per essere presente a L’Aquila al decimo anniversario del terremoto che la distrusse, alle 3 e 32 del 6 aprile 2009. Parto la mattina del 5 aprile, verso le 7 e 30, da Ascoli Piceno. Alle 9 circa sono già a Paganica, dove m’incontro con Antonella, che mi accompagnerà nei miei giri fotografici fino a ora di pranzo. Parcheggiamo le nostre auto sulla salita che costeggia il Forte Spagnolo, e in pochi minuti a piedi siamo in Piazza della Fontana Luminosa. Anche questa volta la mia visita al centro storico aquilano parte da qui, da questa imponente e bellissima fontana che di notte si riempie di favolosi colori.

Imboccando il Corso, la prima cosa che noto sono alcune attività finalmente riaperte. Le ultime volte che ero stato qui non lo erano, era tutto ancora chiuso. È una bella sensazione potersi fermare ad acquistare qualcosa, a prendere un caffè o anche solo a giocare all superenalotto in questo favoloso centro storico. Scoprirò poi che le attività riaperte sono circa il 10%, più o meno un centinaio su mille che erano presenti qui prima del sisma. Il secondo elemento a risultare subito evidente è la ricostruzione: procede a macchia di leopardo, si possono trovare uno accanto all’altro bellissimi palazzi restaurati, eleganti nelle loro linee classiche e con i loro colori pastello, ed edifici ancora dismessi, retti dalle messe in sicurezza in legno o ferro, con i loro intonaci squarciati e le ferite profonde lasciate dal terremoto, in attesa che sia concessa anche a loro una nuova vita. Si notano anche una miriade di cartelli con su scritto “vendesi” o “affittasi”, a rendere evidente il fatto che la ricostruzione e il ripopolamento del Centro Storico non vanno, purtroppo, di pari passo. Molti di quei bellissimi appartamenti nuovi sono tristemente vuoti, e la cosa ovviamente pesa anche sulle sorti del commercio.

Ritorno nei luoghi che ho già visitato, ripartendo proprio dallo spazio sociale più importante della città, Piazza del Duomo. È un grande piacere rivedere la chiesa delle Anime Sante ricostruita, non più coperta dalle impalcature. La cupola del Valadier, il cui crollo in diretta TV fu una delle immagini iconiche del terremoto del 2009, è ricostruita e la sua lanterna apicale solca l’azzuro del cielo di questa bellissima giornata primaverile. Entro. L’interno è meraviglioso, mi dirigo subito verso l’abside per osservare da sotto la cupola. Nella restaurazione è stata lasciata l’ombra della crepa, laddove il terremoto aveva distrutto tutto. Sulla destra della navata, una piccola cappella è stata dedicata alla memoria delle vittime del sisma: due pannelli ai lati riportano i loro nomi, in ordine alfabetico ma con l’eccezione di mariti e mogli e madri e figli, che sono stati messi uno sotto l’altro. Nella saletta successiva, un grande libro su un alto leggio, al suo interno una foto di ogni vittima. Un luogo dell’anima, emozionante, che ci obbliga a fare i conti con i ricordi e il dolore. A fare nostro, anche se solo per un attimo, tutto quel dolore.

Usciti dalla chiesa delle Anime Sante, ci inoltriamo nei vicoli che costeggiano il Duomo, che ancora non è stato riconsegnato alla città. Nelle vie secondarie la ricostruzione è in fase più arretrata rispetto al Corso principale, si nota ancor di più l’alternanza tra ciò che è già stato fatto e ciò che deve essere magari ancora iniziato. Il rumore è però bellissimo: per me che ricordavo una domenica di febbraio con un centro storico deserto e completamente fermo, sentire il frastuono di mille e mille operai al lavoro è una sensazione corroborante.

Passiamo di nuovo dal Ponte del Belvedere, dal quale come la prima volta scatto le immagini dello “skyline” aquilano. Qui di diverso c’è ben poco: il ponte è ancora squarciato e inagibile, lo skyline è sempre dominato da una quantità impressionante di gru. Sullo sfondo la meraviglia del Gran Sasso innevato.

Superato il ponte, scendiamo di nuovo verso il fulcro del disastro, Via XX Settembre.
Appena arrivati, domando un po’ stupito ad Antonella dove sia la Casa dello Studente… me la ricordavo proprio lì. Antonella sorride e mi risponde che sta proprio lì. Capisco la battuta…non sapevo che fosse stata demolita. Restano un cartello, delle magliette, il monumento in ricordo delle vittime dal lato opposto della strada e un troncone di cemento a forma di porta, in mezzo al nulla, con intorno palazzi nuovi di zecca. Scendiamo verso i palazzi “bombardati” che avevo visto la prima volta. L’aria è satura di polvere perché una grande ruspa giallo fosforescente sta demolendo quello che era il Liceo Artistico. Di fronte i palazzi sono ancora bombardati, sulle reti ci sono ancora fiori, e polvere, e pelouche. Sui muri sono affissi manifesti mortuari, in quasi tutti le date sono le stesse, “6 aprile 2009-6 aprile 2019”. La zona, nonostante i palazzi nuovi nascano come funghi dopo una piovuta autunnale, è ancora evidentemente la più colpita. Ci sono ancora cantieri, edifici sventrati e rovine. Ci sono anche bellissimi murales, uno dei quali mi colpisce particolarmente: un’aquila si contorce, con la pelle che ricorda la trama di un muro che perde pezzi, mentre un avvoltoio si porta via una valigia guardandola beffardo. Risaliamo verso Via Campo di Fossa, forse la più disastrata quella notte: lì si era aperta una voragine sulla strada, dentro la quale erano finite auto e persone. Lì erano crollati interi palazzi in cemento armato come fossero fatti di cartapesta. In uno di questi, al civico 6/B, erano morte 27 persone. Ora al 6/b c’è un grande edificio in costruzione, sul cartellone che illustra i lavori il nome del nuovo stabile: “condominio del Beato”. Avvolta attorno al tronco di un albero, una bandiera greca in ricordo di una giovane vittima. La stessa bandiera, con la foto del ragazzo, sulla ringhiera accanto al marciapiede che costeggia Via XX Settembre poco dopo l’accesso a Via Campo di Fossa. Poco oltre le foto di due bambini e di un nonno, con i fiori e i lumini. Via XX Settembre è ancora un museo a cielo aperto, un susseguirsi di immagini di dolore, di ricordi e di perdite.

Ritorniamo verso il centro, risalendo altri vicoli ancora sottoposti ai lavori in corso. La zona rossa è quasi inesistente ormai, sono chiusi solo brevi tratti di vie secondarie, e sono anche pochi.

Passiamo di nuovo di fronte al Palazzo del Governo, la famosa sede della prefettura completamente distrutta dal sisma. Non ci sono più le colonne e l’architrave che sorreggeva la famosissima scritta (che ora si trova a pochi metri di distanza, restaurata, nel palazzo che ospita la prefettura). Ci sono impalcature, il che significa che quel palazzo tornerà a disposizione tra non molto. Alle sue spalle, l’imponente chiesa di Sant’Agostino lascia intravvedere parti restaurate e nuove, anche se ancora è per gran parte coperta da impalcature e ponteggi. Di fronte, la chiesa di San Marco pare ancora essere allo stesso punto in cui l’avevo trovata poco più di un anno fa.

Continuando il giro, ritorno a vedere la grande chiesa di Santa Maria in Paganica, che è ancora squartata e ricoperta da un tetto provvisorio e da tubi innocenti. Mi pare identica a come l’avevo vista la prima volta, due anni e mezzo fa. Ce ne vorrà di tempo, prima di poterla ammirare in tutto il suo splendore. Per la prima volta vedo anche una torre civica che non conoscevo, è tenuta in piedi da tiranti e il suo orologio segna ancora le 3 e 32.

Sono le 13 passate ed è ora di andare a pranzo. Antonella mi porta in un ristorante in periferia, sotto i viadotti dell’autostrada, dove mangiamo dell’ottima pastasciutta e una grigliata. Ci salutiamo. Nel pomeriggio girerò molto da solo, soprattutto registrando video delle cose che ho già visto in mattinata, in attesa degli amici che mi raggiungeranno per cena o poco prima.

Nel giro pomeridiano a quello che ho già visto aggiungo il bellissimo palazzo dell’Emiciclo, sede del Congresso Regionale, nella zona della Villa Comunale, vicino a Collemaggio. È un mirabile esempio di ristrutturazione portata avanti rispettando rigidi criteri di resistenza antisismica. Torno anche all’Auditorium del Parco di Renzo Piano, che oggi vede svolgersi al suo interno diverse iniziative. Poi al Forte Spagnolo: le impalcature che ne coprivano l’ingresso non ci sono più, ma la struttura resta ancora inaccessibile. In centro mi soffermo a guardare una mostra fotografica con dei ritratti di dimensioni generose appesi al di sopra dei portici, i soggetti sono tutti personaggi legati al terremoto. Sui loro volti frasi significative. Di fronte, una mostra d’arte dedicata alla città, di cui stanno allestendo l’ingresso proprio ora, il titolo è “L’Amo QUIndi LA vivo!”.

Continuo a camminare per questo favoloso Centro Storico ferito fino alle 18 circa, quando m’incontro con Alessandro, un geologo di Teramo che ho conosciuto in rete e poco più tardi con Massimiliano, compagno di tanti viaggi. Chiamiamo Patrizio, con cui dovremmo andare a cena ma che è stato richiamato in servizio, ci fornisce l’indirizzo della struttura della Pro Loco di Roio, nella quale saremo ospiti. Riprendiamo l’auto e andiamo a Roio, dove per cena ci raggiungeranno anche Natalia e Gianni. Ci gustiamo un piatto di amatriciana e degli arrosticini in un clima di festa, con decine di Volontari di Protezione Civile provenienti dalla provincia di Rovigo.

Dopo cena, la moglie di Patrizio mi accompagna al B&B nel quale dormirò, dopodichè ci avviamo di nuovo verso via XX Settembre, per prendere parte alla fiaccolata che partirà dal Palazzo di Giustizia. Parcheggiamo al Centro Commerciale La Meridiana, dove subito ci colpisce la quantità impressionante di volontari di Protezione Civile presenti.

In Via XX Settembre, parte il “serpentone”. Sono davvero tantissime le persone presenti, aquilani, volontari, amici. In mezzo alla folla, illuminata dal fuoco delle fiaccole, i cartelli con i volti di alcune vittime, un telo con scritti tutti 309 i loro nomi, diversi striscioni che chiedono, sostanzialmente, ricordo e giustizia. Dal Ponte del Belvedere viene calato un enorme telo, sulla parte alta il numero 309, diversi disegni rappresentano i monumenti più importanti della città. Al passaggio della processione, s’illumina una scritta, sempre volta al ricordo.

La processione continua, facendo tappa alla Casa dello Studente, alla Villa Comunale e poi giungendo in Piazza Duomo, dove saranno letti i nomi delle vittime, accompagnati da rintocchi di campana. Momenti toccanti, in una nottata fredda e di luna piena, proprio come quella notte di dieci anni fa.

Me ne torno al B&B da solo, accompagnato solo dai miei pensieri, e dormo per qualche ora. Al mio risveglio, noto che dalla finestra della stanza in cui ho dormito si vede l’ingresso alla zona rossa di Roio Piano. Siamo a due passi dall’epicentro, registrato sul soprastante Monte Luco. Mi rivesto e parto per fare colazione. Non trovo un bar aperto a Roio e allora mi dirigo di nuovo verso il Centro Storico. Anche qui faccio fatica a trovare un bar aperto, quasi tutti sono chiusi fino alle 11 per lutto cittadino… e sono solo le 9 e 30. Faccio l’ennesima passeggiata e riesco a mangiare qualcosa e bere un caffè. Poco più tardi ho appuntamento a Onna con un altro amico, il sismologo dell’INGV Alessandro Amato.

Alessandro è in lieve ritardo e lo attendo assieme ad Antonella, che è passata a salutarmi e per conoscerlo. Quando arriva, il tempo di quattro chiacchiere tra amici e partiamo a piedi alla volta della “vecchia Onna”, quella che è stata demolita dalle onde sismiche portandosi via circa un quinto della sua popolazione. Ci incamminiamo, costeggiando l’area in cui si trovavano gli spazi della Protezione Civile e della Croce Rossa, delimitati da un muro su cui sono poste delle immagini d’epoca della vecchia Onna e dei suoi abitanti.

Onna, il 6 aprile di 10 anni dopo, è un’esperienza dolorosa, emozionante e necessaria. Per questa importante ricorrenza è stata preparata per i visitatori e camminare tra quelli che un tempo erano i suoi vicoli è un’esperienza al confine tra la riflessione e il dolore. Dove un tempo c’era la vita, dove sorgevano case, oggi si possono vedere ruderi difesi (quasi tutti) da reti, sulle reti le foto degli onnesi che quella notte non ce l’hanno fatta. All’interno di quelle che un tempo erano le loro dimore, delle sagome bianche, a riportare non delle anime, ma vere e proprie presenze “fisiche” lì dove dieci anni e qualche ora fa ci avevano lasciato. Un percorso denso di dolore, emozione, pensieri. In onore di coloro che non ci sono più, un monito per chi resta e dovrebbe fare quanto in suo potere affinché tragedie come questa non abbiano modo di ripetersi. Ho camminato per le vie di Onna osservando, fotografando e filmando, soffermandomi su ogni foto. Molti di quei nomi li ricordavo, molti di quei visi anche. Avevo letto le loro storie, storie di uomini e donne, bambini, giovani e anziani. Le storie di un piccolo borgo tranquillo, con le sue tradizioni e le sue consuetudini, che in una manciata di secondi vede cambiare tutto e in maniera definitiva. Vedere quelle storie oggi, presentate in quel modo, mi ha posto dinnanzi a un misto di tristezza e poesia. Ho trovato, in sostanza, meraviglioso il modo in cui gli onnesi hanno deciso di portarci dentro la loro sofferenza. Vorrei poterli ringraziare per questo, per avermi regalato un’esperienza unica. Vorrei poterli abbracciare, e magari strappare loro un sorriso. In particolar modo mi ha colpito profondamente vedere dove si era consumata la tragedia della famiglia del giornalista de “Il Centro”, Giustino Parisse, che qui, nella sua casa, ha perso in pochi secondi due figli adolescenti e il papà. Vedere le foto dei ragazzi, l’ingresso con il nome sul citofono, il vialetto alberato di quella che doveva essere una bella casa, curata e piena d’amore, conoscendo la storia, non può lasciare indifferenti.

Terminato il giro di Onna, è ormai ora di andare a pranzo. Io e Alessandro ci trasferiamo allora a Sant’Eusanio Forconese, in un locale consigliatomi da Antonella. Un primo, dell’agnello scottadito, un contorno. Tutto ottimo, in un ristorante bello e ben tenuto che si chiama Casa Bologna.

Dopo il caffè e tante interessanti chiacchiere siamo pronti a ripartire. La tappa successiva è Villa Sant’Angelo, piccolo comune della conca aquilana anch’esso duramente colpito dal sisma. Ero stato anche qui, più o meno un anno fa, e anche qui le novità non mancano. La chiesa è stata in parte “bardata” con una copertura in legno, ci sono una buona quantità di edifici nuovi e prossimi all’essere abitati. La zona rossa non esiste praticamente più, resta invece ben visibile un nucleo di case completamente distrutte o lesionate in maniera irrecuperabile, le porte aperte a mostrare come tutto si sia fermato in quel momento e il tempo abbia smesso di scorrere. Anche qui si lavora alacremente per andare avanti, per ricominciare a vivere appieno la vita della piccola comunità.

Lasciata Villa Sant’Angelo, la nostra ultima tappa è Fossa. Non scatto foto a Fossa, perché è praticamente identica a come l’avevo già vista un anno fa. Ci sono forse un paio di cantieri nuovi o che fanno progressi, per il resto è tutto fermo. Le messe in sicurezza, il legno e il ferro, i tiranti, le scritte sbiadite dal tempo, il silenzio. È tutto identico e apparentemente immutabile. Camminiamo insieme per i vicoli del centro di Fossa e mostro ad Alessandro quanto di interessante offre questo piccolo borgo abruzzese.

Torniamo in auto e ci dirigiamo di nuovo a Onna, dove ci saluteremo per poi ritornare alle nostre vite di tutti i giorni, io ad Ascoli e poi a Fano e Alessandro a Roma. Me ne torno a casa con un nuovo bagaglio di esperienze ed emozioni, con tante immagini da mostrare e da portare nel cuore. Pensavo che con questo anniversario avrei chiuso il mio reportage, ma ora non ne sono affatto sicuro. Credo che tornerò a L’Aquila finché non la vedrò completamente ricostruita, senza cantieri, senza macerie, senza ricordi della tragedia che non siano solo i giusti tributi a chi non ce l’ha fatta.

L’Aquila oggi è un cantiere, una città con affisso il cartello “lavori in corso”. Non è affatto vero che nulla è stato fatto, come non è vero che è tutto perfetto. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Tanta bellezza è già stata restituita agli aquilani e a noi tutti, altrettanta bellezza è ancora in attesa di essere svelata di nuovo. Tanti edifici sono di nuovo in piedi, nuovi, bellissimi e sicuri. Tanti altri attendono il loro momento. Qualche attività è ripartita, tantissime altre sono ancora ferme. Il Centro inizia a riprendere vita, ma per ritornare alla vitalità del “prima” la strada da percorrere è ancora lunga. Per quello che può valere, a mio modo di vedere L’Aquila tornerà, più bella di prima e soprattutto molto più sicura, e non ci metterà neanche moltissimo. Tutti potremo di nuovo goderci una delle venti città d’arte italiane, con le sue 99 piazze, le sue 99 chiese e le sue mille storie.

Testo e immagini: Tommaso Della Dora

Si ringraziano per la collaborazione: Antonella Marini, Alessandro Venieri, Massimiliano Fiorito, Natalia De Luca, Alessandro Amato.
#edit 4

L’AQUILA, 5 E 6 APRILE 2019.

DIECI ANNI.



Da un paio di mesi ho iniziato a organizzarmi per essere presente a L’Aquila al decimo anniversario del terremoto che la distrusse, alle 3 e 32 del 6 aprile 2009. Parto la mattina del 5 aprile, verso le 7 e 30, da Ascoli Piceno. Alle 9 circa sono già a Paganica, dove m’incontro con Antonella, che mi accompagnerà nei miei giri fotografici fino a ora di pranzo. Parcheggiamo le nostre auto sulla salita che costeggia il Forte Spagnolo, e in pochi minuti a piedi siamo in Piazza della Fontana Luminosa. Anche questa volta la mia visita al centro storico aquilano parte da qui, da questa imponente e bellissima fontana che di notte si riempie di favolosi colori.

Imboccando il Corso, la prima cosa che noto sono alcune attività finalmente riaperte. Le ultime volte che ero stato qui non lo erano, era tutto ancora chiuso. È una bella sensazione potersi fermare ad acquistare qualcosa, a prendere un caffè o anche solo a giocare all superenalotto in questo favoloso centro storico. Scoprirò poi che le attività riaperte sono circa il 10%, più o meno un centinaio su mille che erano presenti qui prima del sisma. Il secondo elemento a risultare subito evidente è la ricostruzione: procede a macchia di leopardo, si possono trovare uno accanto all’altro bellissimi palazzi restaurati, eleganti nelle loro linee classiche e con i loro colori pastello, ed edifici ancora dismessi, retti dalle messe in sicurezza in legno o ferro, con i loro intonaci squarciati e le ferite profonde lasciate dal terremoto, in attesa che sia concessa anche a loro una nuova vita. Si notano anche una miriade di cartelli con su scritto “vendesi” o “affittasi”, a rendere evidente il fatto che la ricostruzione e il ripopolamento del Centro Storico non vanno, purtroppo, di pari passo. Molti di quei bellissimi appartamenti nuovi sono tristemente vuoti, e la cosa ovviamente pesa anche sulle sorti del commercio.

Ritorno nei luoghi che ho già visitato, ripartendo proprio dallo spazio sociale più importante della città, Piazza del Duomo. È un grande piacere rivedere la chiesa delle Anime Sante ricostruita, non più coperta dalle impalcature. La cupola del Valadier, il cui crollo in diretta TV fu una delle immagini iconiche del terremoto del 2009, è ricostruita e la sua lanterna apicale solca l’azzuro del cielo di questa bellissima giornata primaverile. Entro. L’interno è meraviglioso, mi dirigo subito verso l’abside per osservare da sotto la cupola. Nella restaurazione è stata lasciata l’ombra della crepa, laddove il terremoto aveva distrutto tutto. Sulla destra della navata, una piccola cappella è stata dedicata alla memoria delle vittime del sisma: due pannelli ai lati riportano i loro nomi, in ordine alfabetico ma con l’eccezione di mariti e mogli e madri e figli, che sono stati messi uno sotto l’altro. Nella saletta successiva, un grande libro su un alto leggio, al suo interno una foto di ogni vittima. Un luogo dell’anima, emozionante, che ci obbliga a fare i conti con i ricordi e il dolore. A fare nostro, anche se solo per un attimo, tutto quel dolore.

Usciti dalla chiesa delle Anime Sante, ci inoltriamo nei vicoli che costeggiano il Duomo, che ancora non è stato riconsegnato alla città. Nelle vie secondarie la ricostruzione è in fase più arretrata rispetto al Corso principale, si nota ancor di più l’alternanza tra ciò che è già stato fatto e ciò che deve essere magari ancora iniziato. Il rumore è però bellissimo: per me che ricordavo una domenica di febbraio con un centro storico deserto e completamente fermo, sentire il frastuono di mille e mille operai al lavoro è una sensazione corroborante.

Passiamo di nuovo dal Ponte del Belvedere, dal quale come la prima volta scatto le immagini dello “skyline” aquilano. Qui di diverso c’è ben poco: il ponte è ancora squarciato e inagibile, lo skyline è sempre dominato da una quantità impressionante di gru. Sullo sfondo la meraviglia del Gran Sasso innevato.

Superato il ponte, scendiamo di nuovo verso il fulcro del disastro, Via XX Settembre.
Appena arrivati, domando un po’ stupito ad Antonella dove sia la Casa dello Studente… me la ricordavo proprio lì. Antonella sorride e mi risponde che sta proprio lì. Capisco la battuta…non sapevo che fosse stata demolita. Restano un cartello, delle magliette, il monumento in ricordo delle vittime dal lato opposto della strada e un troncone di cemento a forma di porta, in mezzo al nulla, con intorno palazzi nuovi di zecca. Scendiamo verso i palazzi “bombardati” che avevo visto la prima volta. L’aria è satura di polvere perché una grande ruspa giallo fosforescente sta demolendo quello che era il Liceo Artistico. Di fronte i palazzi sono ancora bombardati, sulle reti ci sono ancora fiori, e polvere, e pelouche. Sui muri sono affissi manifesti mortuari, in quasi tutti le date sono le stesse, “6 aprile 2009-6 aprile 2019”. La zona, nonostante i palazzi nuovi nascano come funghi dopo una piovuta autunnale, è ancora evidentemente la più colpita. Ci sono ancora cantieri, edifici sventrati e rovine. Ci sono anche bellissimi murales, uno dei quali mi colpisce particolarmente: un’aquila si contorce, con la pelle che ricorda la trama di un muro che perde pezzi, mentre un avvoltoio si porta via una valigia guardandola beffardo. Risaliamo verso Via Campo di Fossa, forse la più disastrata quella notte: lì si era aperta una voragine sulla strada, dentro la quale erano finite auto e persone. Lì erano crollati interi palazzi in cemento armato come fossero fatti di cartapesta. In uno di questi, al civico 6/B, erano morte 27 persone. Ora al 6/b c’è un grande edificio in costruzione, sul cartellone che illustra i lavori il nome del nuovo stabile: “condominio del Beato”. Avvolta attorno al tronco di un albero, una bandiera greca in ricordo di una giovane vittima. La stessa bandiera, con la foto del ragazzo, sulla ringhiera accanto al marciapiede che costeggia Via XX Settembre poco dopo l’accesso a Via Campo di Fossa. Poco oltre le foto di due bambini e di un nonno, con i fiori e i lumini. Via XX Settembre è ancora un museo a cielo aperto, un susseguirsi di immagini di dolore, di ricordi e di perdite.

Ritorniamo verso il centro, risalendo altri vicoli ancora sottoposti ai lavori in corso. La zona rossa è quasi inesistente ormai, sono chiusi solo brevi tratti di vie secondarie, e sono anche pochi.

Passiamo di nuovo di fronte al Palazzo del Governo, la famosa sede della prefettura completamente distrutta dal sisma. Non ci sono più le colonne e l’architrave che sorreggeva la famosissima scritta (che ora si trova a pochi metri di distanza, restaurata, nel palazzo che ospita la prefettura). Ci sono impalcature, il che significa che quel palazzo tornerà a disposizione tra non molto. Alle sue spalle, l’imponente chiesa di Sant’Agostino lascia intravvedere parti restaurate e nuove, anche se ancora è per gran parte coperta da impalcature e ponteggi. Di fronte, la chiesa di San Marco pare ancora essere allo stesso punto in cui l’avevo trovata poco più di un anno fa.

Continuando il giro, ritorno a vedere la grande chiesa di Santa Maria in Paganica, che è ancora squartata e ricoperta da un tetto provvisorio e da tubi innocenti. Mi pare identica a come l’avevo vista la prima volta, due anni e mezzo fa. Ce ne vorrà di tempo, prima di poterla ammirare in tutto il suo splendore. Per la prima volta vedo anche una torre civica che non conoscevo, è tenuta in piedi da tiranti e il suo orologio segna ancora le 3 e 32.

Sono le 13 passate ed è ora di andare a pranzo. Antonella mi porta in un ristorante in periferia, sotto i viadotti dell’autostrada, dove mangiamo dell’ottima pastasciutta e una grigliata. Ci salutiamo. Nel pomeriggio girerò molto da solo, soprattutto registrando video delle cose che ho già visto in mattinata, in attesa degli amici che mi raggiungeranno per cena o poco prima.

Nel giro pomeridiano a quello che ho già visto aggiungo il bellissimo palazzo dell’Emiciclo, sede del Congresso Regionale, nella zona della Villa Comunale, vicino a Collemaggio. È un mirabile esempio di ristrutturazione portata avanti rispettando rigidi criteri di resistenza antisismica. Torno anche all’Auditorium del Parco di Renzo Piano, che oggi vede svolgersi al suo interno diverse iniziative. Poi al Forte Spagnolo: le impalcature che ne coprivano l’ingresso non ci sono più, ma la struttura resta ancora inaccessibile. In centro mi soffermo a guardare una mostra fotografica con dei ritratti di dimensioni generose appesi al di sopra dei portici, i soggetti sono tutti personaggi legati al terremoto. Sui loro volti frasi significative. Di fronte, una mostra d’arte dedicata alla città, di cui stanno allestendo l’ingresso proprio ora, il titolo è “L’Amo QUIndi LA vivo!”.

Continuo a camminare per questo favoloso Centro Storico ferito fino alle 18 circa, quando m’incontro con Alessandro, un geologo di Teramo che ho conosciuto in rete e poco più tardi con Massimiliano, compagno di tanti viaggi. Chiamiamo Patrizio, con cui dovremmo andare a cena ma che è stato richiamato in servizio, ci fornisce l’indirizzo della struttura della Pro Loco di Roio, nella quale saremo ospiti. Riprendiamo l’auto e andiamo a Roio, dove per cena ci raggiungeranno anche Natalia e Gianni. Ci gustiamo un piatto di amatriciana e degli arrosticini in un clima di festa, con decine di Volontari di Protezione Civile provenienti dalla provincia di Rovigo.

Dopo cena, la moglie di Patrizio mi accompagna al B&B nel quale dormirò, dopodichè ci avviamo di nuovo verso via XX Settembre, per prendere parte alla fiaccolata che partirà dal Palazzo di Giustizia. Parcheggiamo al Centro Commerciale La Meridiana, dove subito ci colpisce la quantità impressionante di volontari di Protezione Civile presenti.

In Via XX Settembre, parte il “serpentone”. Sono davvero tantissime le persone presenti, aquilani, volontari, amici. In mezzo alla folla, illuminata dal fuoco delle fiaccole, i cartelli con i volti di alcune vittime, un telo con scritti tutti 309 i loro nomi, diversi striscioni che chiedono, sostanzialmente, ricordo e giustizia. Dal Ponte del Belvedere viene calato un enorme telo, sulla parte alta il numero 309, diversi disegni rappresentano i monumenti più importanti della città. Al passaggio della processione, s’illumina una scritta, sempre volta al ricordo.

La processione continua, facendo tappa alla Casa dello Studente, alla Villa Comunale e poi giungendo in Piazza Duomo, dove saranno letti i nomi delle vittime, accompagnati da rintocchi di campana. Momenti toccanti, in una nottata fredda e di luna piena, proprio come quella notte di dieci anni fa.

Me ne torno al B&B da solo, accompagnato solo dai miei pensieri, e dormo per qualche ora. Al mio risveglio, noto che dalla finestra della stanza in cui ho dormito si vede l’ingresso alla zona rossa di Roio Piano. Siamo a due passi dall’epicentro, registrato sul soprastante Monte Luco. Mi rivesto e parto per fare colazione. Non trovo un bar aperto a Roio e allora mi dirigo di nuovo verso il Centro Storico. Anche qui faccio fatica a trovare un bar aperto, quasi tutti sono chiusi fino alle 11 per lutto cittadino… e sono solo le 9 e 30. Faccio l’ennesima passeggiata e riesco a mangiare qualcosa e bere un caffè. Poco più tardi ho appuntamento a Onna con un altro amico, il sismologo dell’INGV Alessandro Amato.

Alessandro è in lieve ritardo e lo attendo assieme ad Antonella, che è passata a salutarmi e per conoscerlo. Quando arriva, il tempo di quattro chiacchiere tra amici e partiamo a piedi alla volta della “vecchia Onna”, quella che è stata demolita dalle onde sismiche portandosi via circa un quinto della sua popolazione. Ci incamminiamo, costeggiando l’area in cui si trovavano gli spazi della Protezione Civile e della Croce Rossa, delimitati da un muro su cui sono poste delle immagini d’epoca della vecchia Onna e dei suoi abitanti.

Onna, il 6 aprile di 10 anni dopo, è un’esperienza dolorosa, emozionante e necessaria. Per questa importante ricorrenza è stata preparata per i visitatori e camminare tra quelli che un tempo erano i suoi vicoli è un’esperienza al confine tra la riflessione e il dolore. Dove un tempo c’era la vita, dove sorgevano case, oggi si possono vedere ruderi difesi (quasi tutti) da reti, sulle reti le foto degli onnesi che quella notte non ce l’hanno fatta. All’interno di quelle che un tempo erano le loro dimore, delle sagome bianche, a riportare non delle anime, ma vere e proprie presenze “fisiche” lì dove dieci anni e qualche ora fa ci avevano lasciato. Un percorso denso di dolore, emozione, pensieri. In onore di coloro che non ci sono più, un monito per chi resta e dovrebbe fare quanto in suo potere affinché tragedie come questa non abbiano modo di ripetersi. Ho camminato per le vie di Onna osservando, fotografando e filmando, soffermandomi su ogni foto. Molti di quei nomi li ricordavo, molti di quei visi anche. Avevo letto le loro storie, storie di uomini e donne, bambini, giovani e anziani. Le storie di un piccolo borgo tranquillo, con le sue tradizioni e le sue consuetudini, che in una manciata di secondi vede cambiare tutto e in maniera definitiva. Vedere quelle storie oggi, presentate in quel modo, mi ha posto dinnanzi a un misto di tristezza e poesia. Ho trovato, in sostanza, meraviglioso il modo in cui gli onnesi hanno deciso di portarci dentro la loro sofferenza. Vorrei poterli ringraziare per questo, per avermi regalato un’esperienza unica. Vorrei poterli abbracciare, e magari strappare loro un sorriso. In particolar modo mi ha colpito profondamente vedere dove si era consumata la tragedia della famiglia del giornalista de “Il Centro”, Giustino Parisse, che qui, nella sua casa, ha perso in pochi secondi due figli adolescenti e il papà. Vedere le foto dei ragazzi, l’ingresso con il nome sul citofono, il vialetto alberato di quella che doveva essere una bella casa, curata e piena d’amore, conoscendo la storia, non può lasciare indifferenti.

Terminato il giro di Onna, è ormai ora di andare a pranzo. Io e Alessandro ci trasferiamo allora a Sant’Eusanio Forconese, in un locale consigliatomi da Antonella. Un primo, dell’agnello scottadito, un contorno. Tutto ottimo, in un ristorante bello e ben tenuto che si chiama Casa Bologna.

Dopo il caffè e tante interessanti chiacchiere siamo pronti a ripartire. La tappa successiva è Villa Sant’Angelo, piccolo comune della conca aquilana anch’esso duramente colpito dal sisma. Ero stato anche qui, più o meno un anno fa, e anche qui le novità non mancano. La chiesa è stata in parte “bardata” con una copertura in legno, ci sono una buona quantità di edifici nuovi e prossimi all’essere abitati. La zona rossa non esiste praticamente più, resta invece ben visibile un nucleo di case completamente distrutte o lesionate in maniera irrecuperabile, le porte aperte a mostrare come tutto si sia fermato in quel momento e il tempo abbia smesso di scorrere. Anche qui si lavora alacremente per andare avanti, per ricominciare a vivere appieno la vita della piccola comunità.

Lasciata Villa Sant’Angelo, la nostra ultima tappa è Fossa. Non scatto foto a Fossa, perché è praticamente identica a come l’avevo già vista un anno fa. Ci sono forse un paio di cantieri nuovi o che fanno progressi, per il resto è tutto fermo. Le messe in sicurezza, il legno e il ferro, i tiranti, le scritte sbiadite dal tempo, il silenzio. È tutto identico e apparentemente immutabile. Camminiamo insieme per i vicoli del centro di Fossa e mostro ad Alessandro quanto di interessante offre questo piccolo borgo abruzzese.

Torniamo in auto e ci dirigiamo di nuovo a Onna, dove ci saluteremo per poi ritornare alle nostre vite di tutti i giorni, io ad Ascoli e poi a Fano e Alessandro a Roma. Me ne torno a casa con un nuovo bagaglio di esperienze ed emozioni, con tante immagini da mostrare e da portare nel cuore. Pensavo che con questo anniversario avrei chiuso il mio reportage, ma ora non ne sono affatto sicuro. Credo che tornerò a L’Aquila finché non la vedrò completamente ricostruita, senza cantieri, senza macerie, senza ricordi della tragedia che non siano solo i giusti tributi a chi non ce l’ha fatta.

L’Aquila oggi è un cantiere, una città con affisso il cartello “lavori in corso”. Non è affatto vero che nulla è stato fatto, come non è vero che è tutto perfetto. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Tanta bellezza è già stata restituita agli aquilani e a noi tutti, altrettanta bellezza è ancora in attesa di essere svelata di nuovo. Tanti edifici sono di nuovo in piedi, nuovi, bellissimi e sicuri. Tanti altri attendono il loro momento. Qualche attività è ripartita, tantissime altre sono ancora ferme. Il Centro inizia a riprendere vita, ma per ritornare alla vitalità del “prima” la strada da percorrere è ancora lunga. Per quello che può valere, a mio modo di vedere L’Aquila tornerà, più bella di prima e soprattutto molto più sicura, e non ci metterà neanche moltissimo. Tutti potremo di nuovo goderci una delle venti città d’arte italiane, con le sue 99 piazze, le sue 99 chiese e le sue mille storie.

Testo e immagini: Tommaso Della Dora

Si ringraziano per la collaborazione: Antonella Marini, Alessandro Venieri, Massimiliano Fiorito, Natalia De Luca, Alessandro Amato.
Quando la terra trema. L'Aquila, 3:32
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Quando la terra trema. L'Aquila, 3:32

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