Ho vissuto come un nomade, seguendo le rotte di Nomadi.
Abbiamo attraversato il deserto. 
Anzi, i deserti! 
Perché non ne esiste solo uno.
Nell'immensa pianura, l'hammada, sono poggiati ordinatamente sassi, lucidi per il sole e il vento. 
Sulle rocce, come una carezza lunga un'era, resta impressa la direzione del vento.

I sassi si sbriciolano in ghiaia e sembra di camminare sul letto di un fiume pietrificato.
Passaggi stretti tra scheletri di montagne, consumate e nude.
Guardano dall'altro lato, in lontananza, ad altri monti spalmati come loro. 
 
A separarli l'infinito plateau

Adid è un cammeliere. 
Batte con la mano il suo djellaba per togliere qualche ciuffo secco d'erba, si mette fiero in posa.
Migra e lavora con i dromedari da sempre. 
Non conosce una parola di francese, solo berbero. Abbiamo bevuto tè alla sera, ci è bastato scambiarci rassicuranti sorrisi, dicendoci bismillah, accompagnato da lenti cenni della testa. 
 
Un pomeriggio, arrivati finalmente sull'erg, vedo il mio amico che cammina lento in cima alla duna,
lo seguo con lo sguardo finchè non sparisce oltre il crinale.

Una leggenda della lontana Mongolia parla di un'epoca antichissima in cui  il cammello aveva un aspetto altamente fiero ed elegante: una lunga coda rendeva morbide le sue linee e un imponente palco in testa lo rendeva regale e possente. 
Il cammello era anche un animale molto generoso ed è per questo che quando si presentò a lui un cavallo che gli chiese in prestito la sua coda lui non battè ciglio e gliela diede. 
Diede in prestito anche il suo bel palco a un cervo furbo ma con la testa priva di qualsiasi ornamento (così si presentavano i cervi in quell'epoca antica).

Il cammello fu beffato, perché mai, né il cervo né il cavallo, tornarono per restituirgli i suoi ornamenti preziosi.
Ecco perchè il cammello ha sempre questo sguardo malinconico che guarda l'orizzonte, in attesa di veder tornare l'eleganza perduta.
 
Ho visto che i dromedari, che invece vivono nel Magreb, hanno lo stesso sguardo dei loro cugini asiatici. 
E' una malinconia intercontinentale.
La vita è forte nel deserto!
Altamente specializzata, difficile da sopprimere anche per i letali 52 gradi estivi.
Ci sono piante e animali che hanno imparato l'evoluzione con la calma imposta. 
 
Sanno cavare fuori l'acqua da falde profonde e conservarla usando la chimica e la fisica dei fluidi oppure chiudendosi e riducendo al minimo i bisogni.

Crescono alte palme da dattero che fanno ombra a frutteti ricchi, che fanno ombra a curatissimi orti verdi. Cocomeri selvatici grossi come un pugno. Profumano di cetriolo ma sono amari al punto che solo le capre e qualche dromedario inesperto si azzardano a mangiarli. 
 
Alcune piante sono secche e orgogliose ma morbide e gialle, 
altre invece hanno un'essenza balsamica, di un colore verde sbiancato da morbidi peli. Olio per conservare, reti per catturare.

E poi ci sono le persone. Nel deserto s'incontra molta gente: pastori, allevatori, gruppi di ragazzi sbucati dal nulla tra le dune che scimmiottano il modello occidentale sognando Ronaldo sullo smartphone e chiedendo soldi. Bambini scalzi e meravigliati, bambini con la cartella, bambini nascosti dietro alle zampe dell'asino, altri che invece per attirare l'attenzione ci salivano in groppa, al volo.
Anziani soli, anziani produttivi, anziani babysitter e anziani come mio nonno. Alcuni timidi, guardavano da lontano, altri invece ridevano compiaciuti e sdentati.
In città, a Marrakech, la gente è diversa da quella che s'incontra nel deserto rurale.
Altre pose, altri sguardi, altri atteggiamenti, altra simmetria. 
Snodo fondamentale di piste carovaniere, è un luogo dove ci s'incrocia da sempre. La gente del deserto qui diventa gente di mondo;
del sole, della sabbia, dei dromedari restano solo tracce visibili a distanza. 

Cammino sperduto per le vie del suk in cerca di contatti non filtrati con gli abitanti di Marrakech.
Dopo un lungo viaggio a piedi, un barbiere dagli occhi azzurri e i capelli d'argento mi ha sfoltito la barba ed eliminato qualche ciocca di troppo. 
Parla un francese precario ma ci tiene a dirmi che è contento di armeggiare sui miei capelli giallissimi.
Si é commosso quando gli ho detto che mio nonno faceva il barbiere come lui, nel centro della Sicilia e che mi piaceva per questo il rumore delle sue forbici cigolanti.

Un giovane macellaio beve un tè nella sua bottega piastrellata. 
La foto del re Muhammed VI pare benedire le sue bistecche.
Gli dico che somiglia a qualche attore italiano di cui non ricordo il nome. 
Questo è sufficiente a concentrare su di lui l'attenzione di altri bottegai. In breve in molti si avvicinano esclamando nomi di attori italiani: uno dice Giancarlo Gianninì! Un altro dice Francesco Benigno! Un altro Raffaella Carrà! 
Alla fine diventa una festicciuola prima di cena dove ognuno dice cose a caso. 
Al mio amico macellaio la foto è piaciuta e mentre tutti continuano a ridere prende un pennarello e scrive il suo nome sulla piastrella bianca. 
Vuole che lo cerchi su fb e che gli invii la foto.

Di notte, nei pressi della grande piazza di Jama'a el Fna, un uomo dai grossi baffi e un ancor più grosso naso, mi fa cenno di entrare nel suo salone. 
Lo guardo e indico i miei capelli, tagliati di fresco. 
Il suo salone è meglio di quello che ho incontrato al pomeriggio: ha due poltrone, due lavandini e poche scrostature dell'intonaco. 
Non usa i polmoni ma fuma di cuore e con la punta delle dita di tocca il sorriso protetto dal baffo.

Lontano da tutto il fragore della piazza, piena di musicisti di strada e imbonitori, incantatori di serpenti e scimmie beffarde, cibo e spremute d'arancia, lontano dai turisti,
lontano dal centro ma anche dal deserto c'è un signore stanco e fiacco. 
Mi chiama con un verso flebile della voce. Allunga la mano secca, chiede la carità. 
Nel deserto, in mezzo al mondo rurale, che in tutto il mondo soffre per l'infinita potenza della culura industriale, non ho elargito una sola matita.
I viaggiatori-salvatori, con il pesante fardello del senso di colpa, generiamo terremoti culturali.
La nostra presunta ricchezza ha creato in "loro"una reale insoddisfazione
e la nostra carità cieca il "loro" bisogno crudo. 
Di fronte a quest'uomo però mi sento solo, come lui. 
L'antropologia non mi serve. La sociologia nemmeno.
Così, protetto dal buio, prendo dalla mia tasca 20 dirham (due euro) 
e li poggio stropicciati sul palmo della sua mano. 
 
Quest'uomo, con il suo viso intarsiato, mi ha benedetto.

Marrakech è il Sud di tutti i sud. 
Qui ribollisce l'umanità, che si muove come se volasse in preda all'estasi 
ma che si siede a terra quando vuole riposare.
Trovi meraviglia dove meno te l'aspetti: al fianco di una porta mangiata dal vento, nei tappeti che scaldano interi quartieri, nel cesso di una griglieria sporca e affumicata, dove la luce taglia il fumo come se modellasse un diamante e ti viene voglia di aspettare e guardare finchè non arrivi la notte.

È una città fatta di vene e sangue pulsante.
È energia pura, ancestrale, chiassosa e fine a se stessa.
Respira.
Inspira polvere ed espira luce. 

Il deserto è un concetto che va sbriciolato, valorizzato nelle mille sfaccettature che lo compongono. 
 
Non c'è spazio che sia vuoto.
Non c'è nulla che sia morto.
In Marocco
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In Marocco

Ho vissuto come un nomade, seguendo le rotte di Nomadi. Abbiamo attraversato il deserto. Anzi, i deserti! Perché non ne esiste solo uno.

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