Luminasio ☀️
Quando l'Emilia-Romagna si è ritrovata sommersa da un vischioso mare di fanghiglia, feci e terrore; eravamo certɜ di poter parlare di una grave perturbazione climatica.
 
Diversi decessi, da considerarsi omicidio delle politiche che rincorrono il feticcio del cemento e della moneta. Decine di migliaia di persone riunite in accampamenti, sfollate da case ormai irriconoscibili. Numeri che non oso rivedere, ma non serve l’esatta cifra per capire che raccontano storie.
 
Dato di altrettanta rilevanza, il numero di cuori che, sconfinando ogni geografia, si sono mossi nella solidarietà capace di farsi braccia e scavare fino all’ultimo detrito. I territori, ormai viscidi e deformi, si sono aggregati intorno a necessità non soddisfatte da chi promette bene e investe male. Dalla necessità, infatti, si sono costruiti rapporti di cura - per le persone e dalle persone, per il territorio e dal territorio - che hanno dato vita a una rete di mutualismo capace di spalare quanto di pretendere un’alternativa al mondo di fango a cui ci hanno ridottɜ.
 
Ci hanno chiamatɜ angeli del fango, dipingendo un ritratto romanzesco di una rabbia che, in verità, di romantico ha poco e niente. Parlavano di noi come di gran principini che galoppano eroicamente sul cavallo bianco per salvare le povere, sperdute, rassegnate, vittime dell'alluvione.
 
Ma ci siamo guardatɜ attorno e, di vittime, non ne abbiamo vista l’ombra. Perché non ci sono vittime, in questa storia. Ci sono carnefici e rapporti di potere; mani sporche di sangue e cemento che schiacciano mani sporche di fango.
 
 
Quella rete di amore che è stata capace di mobilitare mari e monti per portare conforto a chi si è vistə togliere tutto, ha ricostruito le strade inagibili, i relitti delle abitazioni, le poche attività che ancora si potevano salvare dalle macerie. Ma, soprattutto, è stata capace di impugnare la pala quanto una pretesa: mai avremmo tollerato di dover indossare gli stivali ancora una volta; di dover, ancora, fare i conti con gli ovvi e annunciati disastri di chi ha scelto il fango e la tragedia, piuttosto che scegliere la gente.
 
È con questo sentimento di riscatto, che si è organizzato e creato, costruito e ricostruito quanto era stato distrutto. Una rabbia immensa, come la violenza del cielo che ti crolla addosso una pioggia incessante, ci ha condottɜ a riportare ai mittenti il fango che aveva travolto le nostre case. Migliaia di stivali hanno trascinato le loro carriole sotto la sede della Regione, contestando non soltanto un’opera politica, ma mettendo in discussione l’intero sistema mortifero che stava spazzando via le nostre vite.
 
La ricostruzione, dicevamo, deve essere nostra. Per ripartire dalla terra bruciata che è stata fatta della nostra casa, dobbiamo ridisegnare non il territorio, ma i nostri rapporti con un territorio che è stato violentato da cravattari con i portafogli pieni e i vestiti puliti. Dobbiamo irrompere nelle logiche di sopraffazione dietro l’asfalto e in tutte le altre diverse forme di devastazione di ciò che ci circonda.
 
Lottare è risignificare l’intendersi di territorio, ammettendo che la violenza sulle strade e nelle strade che attraversiamo ogni giorno, è violenza su di noi.
Un passo indietro rispetto all'alienazione da ciò che ci circonda, è un passo che ne permette mille di passi avanti, facendo della nostra bandiera la pretesa di qualcosa di diverso dal cemento, dalle false promesse, dal fango, dai fondi gestiti e dirottati da chi ignora le esigenze e i desideri di chi vive, abita, costruisce.
 
Rinnegare gli stivali, rinnegare le pale, le belle parole. Costruire prospettive, consapevolezze e sguardo di cura tramite il confronto e la socialità. Identificarsi nel territorio al di fuori di ogni artificiosa geografia, vedere il territorio come Casa e non come Confine.
 
A quel punto, era inammissibile non vedere riconosciuto che il ripetersi di disastri preannunciati ed evitabili, di ricerca del profitto sulla nostra pelle, non aveva mai avuto fine; ed era inammissibile di poter, a malapena, sopravvivere e vivere fino alla fine dell'emergenza, ma sempre nella certezza di non poter andar oltre l'emergenza.
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E, per merito di queste “vittime”, si è aperta la possibilità di muovere un volontarismo solidale che ha raccolto tantissime braccia da tutto il paese e a cui si è cercato di dare una prospettiva che andasse oltre il semplice altruismo, che sconfinasse oltre l'individualismo e, con le pale in mano, iniziasse a pretendere, collettivamente, che fosse l'ultima volta che dovessimo imbracciarle.
 
Unire le braccia per portare supporto attivo allɜ alluvionatɜ ha creato uno spazio di relazioni, di rapporti di cura, che hanno arricchito le nostre chiavi di lettura per comprendere l'entità di una crisi climatica aggravata da politiche di abuso sul territorio per il​​ profitto di pochi. Una solidarietà anche più prorompente delle piogge di quei fatidici giorni, grazie anche alle dritte delle realtà del territorio e all'impegno delle realtà e delle persone giunte sul territorio, pronta a puntare il dito contro gli squilibri di un mondo in cui su qualcuno piove fango e, proporzionalmente, su qualcun altro piove denaro; ammettendo che una tragedia di tale portata non viene dal cielo o dalla terra, ma viene da nomi e cognomi.
Una precarietà esistenziale che interseca nodi complessi da sviscerare e in cui, troppo spesso, ci si sporca le mani con contraddizioni inedite e situazioni di una disomogeneità disarmante.
 
Ma che, forse, trova la sua forza propria in questa sua trasversalità: ci siamo riunitɜ nel fango, da ogni città, da ogni quartiere; ci siamo organizzatɜ e mobilitatɜ con ogni mezzo, perché la rabbia che muove un territorio che si è visto travolgere e sconvolgere dal profitto, la conosciamo bene. Ogni precariə deve sguazzare nel fango. Ci siamo sentitɜ annegare, persɜ, disperatɜ. Ma anche stufɜ, ci siamo sentitɜ traboccare di odio e desiderio di riscatto. Sono emersi i punti di contatto con chi ad ogni pioggia ha temuto che fosse arrivato il suo momento. 
 
 
Puntiamo il dito contro il capitalismo, l’abuso della terra. Contro le istituzioni schiave del profitto e dei privati, contro il cemento che grigia le nostre strade e contro il lucro che viene fatto sui nostri territori, togliendo spazio di vita e di respiro alle nostre comunità. Esigendo di rompere la catena di sfruttamento delle persone e dei territori, abbiamo restituito il fango ai mittenti, con la determinazione di un territorio che è stato violentato e le reti di solidarietà e partecipazione che abbiamo innalzato, hanno colmato le lacune lasciate dal sistema mortifero che ha strangolato l'Emilia-Romagna, seppellendola sotto strati di cemento con l'occhio ben attento solo ai progetti di opere inutili e dispendiose, come l'allargamento del Passante.
 
Siamo statɜ bravɜ nell'accusare non il colpo, ma il colpevole: chi aveva e ha la responsabilità politica e umana del disastro che si è infranto su nostri territori. Abbiamo lottato per la libertà di un territorio, che ancora è imprigionato sotto strati di asfalto e vede la sua morfologia distrutta dagli abusi delle male politiche. Se non saremo noi a plasmare la ricostruzione, torneremo nel ciclo vizioso di male politiche che ha fatto terra bruciata dei nostri territori e tuttora persevera nella distruzione.
 
Assisteremo all'ennesimo riprodursi delle logiche di sopraffazione che vengono imposte sui nostri corpi quanto sull'ambiente che ci circonda, invece di fare un passo avanti verso una ricostruzione che si faccia resistenza al feticcio dell'asfalto, all’industrializzazione massiccia come mito del progresso, alle opere inutili. 
 
Resistenza ad una crisi climatica che non era inevitabile, ma è stata generata da un sistema che sgrava l'altra faccia della medaglia del profitto
sulla base sociale. Quella che vogliamo - scusatemi il romanticismo - è vedere bruciare la gente, ma non di caldo. Vedere bruciare i territori, non dalle fiamme, come già sta accadendo da un pezzo, ma dalla rabbia di chi alza la testa e rivendica un mondo ecologista e antispecista, transfemminista e via dicendo.
 
Il cementocene è esattamente quello che non vogliamo vivere. Vogliamo contraddistinguerci per aver stravolto le logiche di un mondo al collasso e di averlo riportato sulla retta vita, quella dell'armonia con il territorio. Sicuramente non vogliamo essere ricordatɜ per il cemento. Mon è quello che ci vogliamo lasciare dietro. Non è sotto il fango
e il cemento che vogliamo essere sepoltɜ.
 
Cura è quello che intendiamo come ricostruzione dal basso, come giustizia sociale e climatica costruita sulle macerie del sistema attuale. Secondo il modello di cura di chi ha messo le mani nel fango e pretende di ridisegnare il proprio quartiere, le proprie strade, la propria città, l'intero contesto urbano, produttivo e abitativo, a seconda dei desideri e delle esigenze della gente e dei territori.
 
 
Carracci 🏠
Carnevale (2024) 
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