IL VICINO
di Massimo A. Prisco

La macchina da scrivere impolverata sulla scrivania, sullo schermo del tablet il cursore lampeggia solitario. Altro che 'acqua', cerco ispirazione da una bottiglia di Jack, ormai quasi finita. Avevo letto l'inserzione in rete. Non il solito concorso letterario in cui l'unico vincitore era l'ideatore, piuttosto una bella sfida. Apparentemente semplice. Scrivere un racconto, di un genere qualsiasi, con l'unica regola di inserire tre indizi: acqua, il vizio peggiore, porta un’amica.
L'inizio è sempre un problema, destinato a crescere una volta trovate le prime parole, ma è un dannato piacere quando riesci a metterle insieme come si deve.
Pietro, trentadue anni, aspirante scrittore. Fortunatamente non devo vivere di questo, altrimenti non avrei speranze. Abito in un piccolo appartamento nel cuore di Milano, lascito dei miei genitori ormai defunti, insieme ad un capitale con cui poter vivere a lungo di rendita. Ma non è tutto così semplice. Fossi costretto a sbarcare il lunario forse riuscirei a produrre qualcosa; un po' di pressione, giusto per stimolare l'immaginazione e la rabbia, quella buona. Invece me la prendo comoda, cercando ispirazioni dal nulla, chiudendomi nel mio mondo tra quattro mura nascoste dalla nebbia che sale dal naviglio, asciutto. Dalla finestra della sala osservo il panorama addormentato di una domenica mattina. Mi siedo sul divano, davanti la pagina vuota, pesco un biscotto da un sacchetto rimasto lì dalla sera prima. Dei passi sopra di me. Roberto si è svegliato presto stamattina. Siamo solo noi nella palazzina: al piano terra un bar chiuso da tempo, poi io con il mio blocco creativo e infine lui, che di bloccata ha la carta di credito. 
Lo conosco da otto anni, cioè da quando si è trasferito qui in cerca di fortuna. Un giovane grafico salentino ricco di talento e di sorrisi, convinto di potersi realizzare nella città sognata fin da ragazzo. Ci era riuscito trovando posto in un' agenzia famosa, collaborando a progetti importanti e facendosi conoscere non solo nel mondo della pubblicità, tanto da integrarsi nella Milano 'che conta'. Sette anni di ascesa continua, culminati in una rovinosa dipendenza dal gioco. Il vizio peggiore. Così era rimasto solo, fuori dal giro, senza lavoro e pieno di debiti. Abbandonato da chi l'aveva creato, spinto e sfruttato; nonché da Elvira, la formosa designer napoletana di cui si era invaghito e con cui aveva una relazione da tempo. Ma non da me; non che lo considerassi un amico, inizialmente mi era anche antipatico, ma il tempo aveva rivelato la sua schiettezza e anch'io, pur da profano, capivo che il talento non gli mancava. Così avevo deciso di dargli una mano e fortunatamente sembra che ora, dopo quasi un anno di purgatorio, si stia riprendendo. I passi sulla mia testa proseguono fino all'ingresso. Nel silenzio del mattino sento le mandate della serratura, quattro, la porta si apre lasciando entrare una voce femminile. Non capisco le parole ma distinguo chiaramente delle risate. Che io sappia Roberto non sta frequentando nessuno. Magari è Elvira, potrebbe essere tornata da lui ora che sta riordinando la sua vita. Sarebbe un classico: il minestrone riscaldato. Non per giudicare, ma nel descrivere una donna si parte quasi sempre con l'elogiare qualcosa del fisico e criticare qualcosa del carattere. È una sorta di deformazione professionale maschile, congenita e crescente con l'andare degli anni. Ad ogni modo lo lascio alle sue faccende, ho di meglio da fare che origliare da un vecchio soffitto. 
Un pallido sole cerca di farsi strada tra la nebbia, affacciandosi alla finestra e mostrandomi la stanza in tutto il suo disordine. Dalla mia comoda posizione sul divano guardo la polvere che copre il pavimento e la scrivania. A terra un cumulo di riviste impilate a caso sul punto di cadere, il vetro da cui entra la luce ha più segni dello schermo del tablet. Mi ci vuole una donna, non perché sistemi lei queste cose, ma perché mi induca a farlo. Anche la mia colazione conforta questa tesi: whiskey e biscotti avanzati non sono proprio un brunch da proporre ad eventuali ospiti. Dovrei dare anch'io una riordinata alla mia vita, cominciando dalla casa, ma lo farò nel pomeriggio. Ho trovato, parlerò di uno scrittore maledetto. Alla Bukowsky, figlio di una società senza valori, che cerca soddisfazioni personali attraverso sotterfugi, sesso e la ricerca di se stesso. Qualche moralista storcerà il naso sentendo quel nome, ma non mi importa. Il suo non è altro che un inno al masochismo e una lista di controindicazioni al tempo stesso, un mare di nichilismo sotto un cielo d'amore, una miccia che accende il maschio bastardo che è in ogni uomo. Perché in fondo il peccato è in ognuno di noi, per questo è un argomento affascinante, interessa sempre, figuriamoci in questo che è il tempo delle mele morsicate. Finalmente deciso a pigiare le prime lettere sullo schermo un tonfo dal piano superiore mi blocca. Silenzio. Mi guardo intorno, cercando non so nemmeno io cosa. Il suono di una sirena in lontananza si disperde nell'aria, qualcuno chiacchiera per strada. Da sopra nulla. Nessun passo, nessuna voce, nessuna risata. Mi alzo senza pensarci. Apro la porta finestra che da sul terrazzino e guardo in alto, nulla di strano, chissà cosa mi aspettavo di vedere. Rientro e cammino verso la camera dove ho lasciato il cellulare. È ancora attaccato alla presa, senza staccarlo mi siedo sul bordo del letto e chiamo Roberto.
Non risponde, suona, ma non risponde. Riprovo, nulla. "Eppure ci sei, so che ci sei". Magari il rumore che ho sentito era la porta che si chiudeva, saranno usciti a fare colazione. Già, ma come ho sentito le mandate della serratura quando ha aperto le avrei dovute sentire quando è uscito, anzi, quando sono usciti.
Tento di nuovo: squilla, stacco il cavo dal telefono mentre in silenzio torno in sala. Appoggio il cellulare sulla scrivania, cercando di sentire suonare il suo al piano di sopra. Nulla. 
"Basta. La devo finire con queste paranoie. Guardo troppi polizieschi".
Torno al divano, cercando di riprendere il filo del discorso. Lo schermo è sempre bianco, devo ancora iniziarlo il discorso. "Allora. Dicevamo. Scrittore mal.. No non ce la faccio, devo andare a vedere".
Mollo il tablet e prendo una barattolo vuoto dalla dispensa. Fingerò di aver finito il caffè.
Già mi immagino Roberto incazzato che mi apre la porta chiedendomi cosa possa volere di domenica mattina, sapendo che in realtà è più incazzato per aver interrotto il suo incontro. 
Esco. Per le scale un profumo femminile, floreale ma intenso. Indeciso salgo gli scalini uno alla volta. In una mano ho il barattolo vuoto, nell'altra il cellulare. Mi fermo. Indosso una tuta, la barba incolta, i capelli arruffati. Non mi importa, ormai sono qui. "Poi chi dovrei pensare di incontrare? Non dovrei sapere che lei è qui, chiunque sia lei". Proseguo. La porta è socchiusa, due metri davanti a me. Un filo di luce passa dallo spiraglio. Dovrei tornare giù, far finta di nulla. Ho guardato troppi film per sapere che non è un bel segnale. Ma proprio come in quei film vado avanti, spinto dalla curiosità, dall'idiozia. Fossi seduto sulla poltrona di una cinema ad osservare la scena, con in mano dei popcorn e un bicchiere di birra, ora mi starei insultando. Mi guardo alle spalle. Ormai non posso più tornare indietro. Spingo la porta lentamente. Sembra pesare un quintale. Sento dei passi rapidi e il rumore di una finestra che sbatte. Entro. Avanzo nel corridoio fino in sala, la portafinestra è aperta e si muove ancora. Corro sul terrazzino e guardo giù, nulla. Un uomo pedala dall'altra parte del naviglio, due ragazze chiacchierano all'angolo oltre il ponte. Nessuno guarda verso di me. Rientro, appoggio il barattolo sul tavolo al centro della stanza. Sul divano un cappotto, di una donna. "Roberto sono Pietro. Ci sei?". Nessuna risposta. In cucina aroma di caffè, nel lavandino una tazzina ancora da lavare. "Pietro!?". Nulla. Torno in sala, proseguendo verso la camera da letto. Il corridoio è buio, la porta chiusa. Ora da quella poltrona del cinema mi sto insultando ancor di più. Quando apro lo sguardo si ferma immobile sulla scena. Sento le gambe sciogliersi mentre il cuore pulsa in gola. Vorrei voltarmi e scappare ma non riesco a muovermi. È come in un incubo, è un incubo. Reale. Si baciano, sono ancora abbracciati. In un letto di sangue. Completamente nudi. Sembra un quadro surrealista, opera di una mente sadica. Lui a sinistra, lei a destra, entrambi con un foro nel petto, colpiti al cuore. Lei non è Elvira. Ha i capelli biondi, corti, la carnagione chiara, le gambe accavallate a quelle di Roberto. La fede al dito della mano poggiata sul suo fianco. Ora la riconosco. Abita nella palazzina vicina, si chiama Elisa. Si chiamava Elisa. Riprendo fiato. Nella stanza nulla di strano, a parte loro ed un orologio da parete poggiato sul lenzuolo. Il cellulare suona, ricordandomi di averlo in mano. È il numero di Roberto. Lo osservo e mi guardo intorno, girando su me stesso. 
Rispondo.
"Pronto".
"Non so chi sei e poco mi importa. Ora devi fare quello che ti dico, questo importa. A meno che tu non voglia fare la loro fine".
"Io, io..". 
"Ascoltami. Sono nel tuo appartamento, esattamente sotto di te. Quella che stai osservando è mia moglie, anzi, era mia moglie. Ora, vedi l'orologio sul letto?".
"Io non c'entro nulla, perché..".
"Ascoltami bene! Credo proprio che tu non stia capendo la situazione, e se le cose stanno così salgo e uccido anche te. Se avessi dormito come fanno tutti la domenica mattina ora non saresti dove sei. Non è colpa mia, ti ci sei messo tu; ma ora, se mi ascolterai, andrà tutto bene. D'accordo?".
"Va.. Va bene".
"Bravo, vedo che ci tieni alla tua vita. Guardando il tuo appartamento ne dubitavo. Comunque, vedi quell'orologio?"
"Sì.. Sì, lo vedo".
"Era appeso alla parete dietro il letto, sulla destra. Lo vedi il chiodo?".
"Sì".
"Avvicinati".
"Come?".
"Avvicinati al chiodo forza! Sono nel tuo appartamento, non posso farti nulla. Se non ci credi posso dirti che sto guardando i tuoi vinili, complimenti, bella collezione. Però dovresti tenerli un po' meglio. Oh, ecco, questo è perfetto, il Rigoletto".
"Va bene, ma cosa vuoi da me?".
"Le domande le faccio io. Tu fa solo ciò che ti dico. Ora aspetta..".
Le gambe mi tremano, mi avvicino alla parete passando alla destra del letto. Roberto sembra osservarmi. Gli occhi di ghiaccio, fissi nel vuoto.
Dal piano sotto riconosco una voce calda e ben distinta, Placido Domingo.
Avvicinandomi al chiodo noto sotto questo un buco nel muro. Un centimetro, non di più. Piccolo, ma grande abbastanza da vedere dall'altra parte. Un'altra camera, il letto esattamente in primo piano. Non avrei mai pensato che Roberto fosse un voyeur, ma ora che ci penso non mi ero nemmeno accorto della sua storia con Elisa. Di lei so poco, ricordo di averla vista col marito al bar dall'altra parte del naviglio. Un uomo sulla quarantina, brizzolato, indossava una divisa da vigilante. Si spiega come possa avere una pistola. Sicuramente deve avere anche un silenziatore, sentivo ogni rumore dal mio appartamento, avrei certamente dovuto sentire gli spari. Ci sono tante cose che non so di questa storia, e ho paura che le verrò a sapere tutte. 
"Non è un grande baritono".
"Come?".
"Domingo. Non è un grande baritono".
"Ah, sì sì è vero..".
Perso nei pensieri su Roberto ed Elisa ed intento a guardare nell'altra stanza la voce al telefono mi coglie all'improvviso, riportandomi alla realtà. 
"Allora? Hai trovato il buco?"
"Sì".
"Funzionale non è vero? Pensa com'è bello quando scopri che tua moglie fa spettacoli al vicino di casa. Pensa quando scopri che questo ti ha guardato mentre stavi con lei, ridendo di te. Lì da qualche parte dev'esserci un cellulare, quello che ho in mano non è quello da cui le scriveva. Lo stavo cercando ma poi se arrivato tu. Voglio solo una conferma, prova ad indovinare quale".
"Non ne ho idea, ma immagino me lo dirai tu".
"Bravo. Hai vinto un orsacchiotto di peluche. Un giorno ho trovato nel cellulare di Elisa un video, voglio capire quanti ne hanno fatti e se li hanno messi in rete. Non sai cosa si prova.. ma almeno così ho avuto modo di aprire gli occhi e capire veramente con chi stavo vivendo".
Quanto sei idiota Roberto! Come ti è venuto in mente di fare pure dei video con una donna sposata, con un uomo armato tra l'altro. Ora guardati.
Sembrano finti, di cera. Quel pazzo al piano di sotto dopo avergli sparato ha avuto la freddezza di prenderli e metterli in quella posa angosciante. E ora è sotto di me, con la pistola fumante in mano. Solo adesso mi rendo conto della situazione in cui mi trovo. Ha ragione lui. D'ora in poi la domenica mi sveglierò a mezzogiorno, mi farò i fatti miei e inonderò la casa di musica. Sempre se ci arrivo a domenica prossima.
"Ti rendi conto? Quella stronza! Otto anni. Otto maledetti anni in cui ora mi chiedo quante volte l'abbia fatto. Chi mi dice che non ce ne siano stati altri? Muoviti! Trova quel maledetto cellulare".
"Ma io.. Non so dove guardare. Ascolta..".
"Ascoltami tu. Se non ti è ancora chiaro ti conviene fare quello che ti dico quando te lo dico. Altrimenti quel capolavoro di arte moderna che hai a fianco si trasformerà in un trittico che in confronto l'inferno di Bosch sembrerà un calendario dell'avvento".
"Va bene va bene ora guardo".
Sul comodino di Roberto oltre ad una lampada nera c'è solo un libro di Saramago. Apro il cassetto, biancheria intima e qualche moneta. Giro intorno al letto, cercando di non fare troppo rumore. "Come se si potessero svegliare". Sull'altro comodino c'è solo la borsetta di Elisa, beige, di pelle morbida. Ha quel profumo, lo stesso che ho sentito per le scale. Floreale, intenso. Apro il cassetto. Una fotocamera e un cellulare, eccolo. Lo prendo in mano e apro uno dei tanti messaggi di Elisa. 
Roby ti voglio. È passato troppo tempo. Voglio provare quella cosa..Porta un'amica, quella di cui mi hai parlato. Con te posso farlo. Fammi sapere quando. Baci. E.".
Chi l'avrebbe mai detto? Lo appoggio sul comodino e prendo la fotocamera. È scarica.
"Allora?".
"L'ho trovato".
"Bravo. Hai visto? È semplice. Ora vai sul terrazzino e lascialo cadere".
Per un attimo mi viene da chiedergli se non sarebbe meglio darglielo per le scale. Fortunatamente questo pensiero idiota rimane tale. Perché mai dovrei avvicinarmi a lui?
Prendo il cellulare e torno in sala. Mi avvicino alla portafinestra e noto con piacere che per strada inizia ad esserci un po' di movimento. 
"No. Lascia stare. C'è troppa gente, esci e appoggialo sui gradini. Poi torna nell'appartamento. Quando hai fatto dimmelo".
Ecco. Ora chi mi dice che non sia qui fuori ad aspettarmi?
Potrei affacciarmi e chiedere aiuto, ma è proprio il motivo per cui ha cambiato idea. Appena dovesse sospettare qualcosa non esiterebbe ad uccidermi. Arrivato a questo punto un cadavere in più non credo gli faccia molta differenza. Sono in trappola.
Mi avvicino alla porta. Guardo fuori dallo spioncino. Nessuno. O così sembra. Apro piano, l'aria fredda dalle scale si fa strada in casa. Un piede fuori, poi l'altro. Avanzo lentamente. Mi avvicino agli scalini e lo appoggio a terra. Mi volto e corro, chiudendo la porta alle mie spalle con tutte le mandate possibili. 
"Fatto".
"Bene, bravo".
Sotto di me sento la porta del mio appartamento aprirsi. I passi riecheggiano per le scale.
"Ne hai letto qualcuno vero?".
"No, è che q..".
"Fai silenzio, poco importa. Non ho tempo per ascoltare le tue scuse. Piuttosto dimmi: tu e quel cadavere abbracciato a mia moglie eravate amici?".
Ora cosa rispondo? Dovrei dirgli che lo conosco, ma che non siamo amici. Sì, è la cosa migliore da fare. 
"Non direi. Lo conosco da tanto sì, essendo vicini, sai com'è..".
"Sì so com'è. Mi prendi in giro?".
"No è che..".
"Allora perché mi dici cazzate?".
"Te lo giuro, ci si incontrava sulle scale, ogni tanto facevamo quattro ch..".
"Finiscila! Sono seduto sul tuo divano sai? Ho visto i tuoi racconti. E le tue foto. Io non ho album di foto al mare con gente con cui scambio quattro chiacchiere sul pianerottolo..".
Cazzo. Una maledetta vacanza insieme, ad Ibiza. In una triste estate in cui entrambi eravamo a casa ad agosto senza compagnia. Ci era sembrata una buona idea, e al tempo lo era anche stata. Ma adesso. Adesso mi ritrovo seduto sul suo divano, con l'uomo che ha cornificato seduto sul mio di divano, e sua moglie morta avvinghiata a lui. E pensare che in vacanza si interessava solo ai libri di giorno e a bere dal tramonto all'alba. Ecco cosa può combinare un muro poco spesso, qualche centimetro che lo divideva dal brivido del proibito, dall'adrenalina da cacciatore. Ma quello doveva essere stato un passaggio secondario. Il legame doveva essere nato prima, in qualche altro modo. Dalla noia di lei, sicuramente. A casa da sola a sbrigare le solite faccende. Triste e delusa come tante altre donne nel mondo. Lui le avrà fatto un sorriso, detto la parola giusta, sfiorato svegliandolo quel lato assopito di donna che rivendica soddisfazione, prima che sia troppo tardi. Le tragedie sono figlie dell'amore. Sempre. Vissuto o mancato, è lui a comandare il mondo. 
È inutile mentire.
Dei rumori, un fruscio e la voce di Domingo che si alza. Se aumenta ancora la sentiranno fino in strada. Le mani mi tremano, magari sta salendo. Mi alzo, "ma dove vado?!". Decido di tentare la fuga, prendo le chiavi e a fatica centro la serratura. Il cellulare è sul divano, devo fare in fretta. Apro, senza guardare corro giù per le scale saltando tre gradini alla volta. Il cuore in gola, la musica mi insegue, "non guardare indietro, non guardare indietro". Il portone di ingresso è davanti a me. Premo il pulsante, la serratura scatta e sono fuori. Un gruppo di persone mi osserva stranito, poi alza lo sguardo. Sul mio terrazzino c'è un uomo con una pistola puntata alla testa, in bilico sulla ringhiera. 
La voce di Rigoletto riecheggia nitida fino in strada - "..Taci, e mia sarà la cura la vendetta d’affrettar. Pronta fia, sarà fatale, io saprollo fulminar" - è un attimo, e mi è vicino.
IL VICINO
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IL VICINO

Racconto per Tramando 2013 Massimo di 3000 battute e obbligo di parole specifiche

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