Questi ritratti presentati in dittico aprono le porte dell’Ospedale Amedeo di Savoia di Torino. 
Punto di riferimento per le malattie infettive del nordd’Italia, è stato evidentemente prima trincea durante l’emergenza Corona Virus.
I “nostri dottori”, tutti i giorni in televisione, nelle immagini sgranate dei telegiornali, sono stati raccontati nei mesi più bui come gli eroi del momento, stravolti da turni infiniti, arrangiandosi con impegno e professionalità attorno alle mille carenze e difficoltà della prima ondata di inizio Marzo 2020.
Per mesi il paese ha imparato a conoscerli così, ma dietro a quelle maschere, caschi e tute, chi si nasconde in silenzio?

Direttori sanitari, infettivologi, anestestisti, giovani specializandi, donne delle pulizie, infermieri. Uomini e donne ognuno con un volto e una voce.
L’ultimo lavoro di Mauro Talamonti svela la persona dietro la maschera, quella che non deve essere dimenticata.
Per ogni pagina una storia vissuta all’interno dei reparti “zona rossa”. Molti sono stati infettati, tutti hanno vissuto episodi e conosciuto singoli pazienti che non dimenticheranno più.
Questa è la testimonianza visiva e testuale di queste persone e dei loro volti nascosti “dietro la maschera”.
dr.ssa Francesca A.
Specializzanda

Il mio reparto è stato l’ultimo ad aprire, esperienza
estrema. Da quel giorno mi sono detta: “... non sono più una specializzanda da oggi. Adesso devo essere pronta,mettercela tutta per dare il meglio, consapevole dei miei limiti.Stavo per cambiare casa, sarei dovuta andare a vivere da sola, sono invece rimasta dai miei.
Mi sono chiusa in camera per tre mesi, tornavo dall’ospedale ed entravo in camera. Mia madre mi
passava il cibo dalla porta. Ero stremata ma volevo disperatamente andare avanti.
Durante una guardia di domenica, ho ricoverato un paziente in ottima salute, l’ho visitato personalmente.
Era di sera. Dal giorno dopo ha iniziato la respirazione col casco. Mi ci sono affezionata, stessa età di mio padre. Dopo due giorni entro in reparto e gli infermieri mi guardano dall’altra parte del vetro di separazione.
Era morto.” 






dr. Walter R.
Specializzando

“La cosa alla quale pensavo di più erano i miei genitori al sud, a Lecce.
Difficile separare i due mondi, una pandemia “tecnica” da affrontare e il pensiero da figlio di potersi infettare e passare il virus agli amici e alla famiglia. C’è questo peso, un’ombra che continua a seguirti e della quale non si riesce a liberarsi.”







dr. Mattia T.
Neo Specialista

“Sto ancora elaborando i sentimenti che ho provato in ospedale durante il periodo del lockdown più profondo.
Tutto era sovvertito, in tempi “normali” quella che noi definiamo “vita” è fuori dell’ospedale; dentro è il “lavoro”.
Di quei mesi invece ricordo le strade grigie e completamente deserte della città, dove solo noi medici e pochi altri potevano circolare. La vita, e la morte purtroppo, erano improvvisamente dentro l’ospedale, quasi che fosse diventato l’unico luogo dove esistessero delle interazioni.Era l’unica casa, il nido felice, i colleghi erano la famiglia, i pazienti che dimettevi che ti vedevano per la prima volta senza maschera i tuoi migliori amici e cercavano un contatto che i pazienti normali non cercano.
Ricordo il biglietto che ci ha lasciato la moglie di un paziente che purtroppo è morto: ha ringraziato tutti noi, nonostante tutto. Nonostante la perdita del marito, ci ha ringraziato.”






dr. Marino B.
Medico Infettivologo CONTAGIATO

“Sono stato contagiato nei primissimi giorni, e sono stato ricoverato dal 31 Marzo al 7 Aprile. Clausura, non potevo uscire e vedevo i colleghi con gli occhi di un malato. Sono stato a casa in quarantena e non so come non ho infettato nessuno.
Il ricordo più pesante che non riesco a dimenticare, nonostante i decenni di esperienza di ospedale, è la totale solitudine con la quale i pazienti se ne andavano. Senza un saluto, senza uno sgurado di un famigliare.”







dr. Giacomo S.
Specializzando

“La prima notte mi ero proposto di andare con un mio collega di fare il turno notturno, il 4 Marzo abbiamo isolato 14 pazienti in 24 ore. Entriamo nella zona rossa, volevamo davvero capire cosa fosse questa patologia della quale non avevamo ancora indicazioni cliniche. Volevamo imparare tutto quello che potevamo ne minor tempo possibile. Ho ho preso l’abitudine di indossare due guanti protettivi isolando il secondo paio con del nastro adesivo sul camice.
Abbiamo messo un tablet all’interno della zona rossa per le comunicazione con l’esterno. Su questo suonavamo anche della musica per rendere il più “leggero” possibile il ricovero. Un paziente mi ha chiesto di vedere un gol di Totti, io sono romano e  romanista lui interista e voleva proprio vedere questo pallonetto di Totti contro l’Inter. Mi ha giurato che se fosse uscito di lì mi avrebbe anche cucinato una carbonara. Questo scambio è una ricerca di contatto, di mettersi in relazione con l’altro. Anche da dietro una mascherina.”







dr.ssa Sabrina A.
Medico Infettivologo
“Ricorderò per sempre che alcuni pazienti ci riconoscevano dalla voce. Noi soldatini in trincea. Uniti come mai, superando vecchie inefficienze, con l’unico scopo di curare al meglio i ricoverati. Quando venivano dimessi, entravano nella zona pulita,
e ci mettevamo dall’altra parte del vetro di separazione. Per la prima volta senza mascherina e protezioni ci guardavano e univano come in un puzzle la voce a un volto.”
dr. prof. Giovanni Di Perri
Medico Infettivologo

“Io so benissimo che siamo stati poco protetti. Le strutture non erano pronte, non erano a norma per fronteggiare un attacco simile. Nonostante i miei medici mi abbiano in tutti i modi protetto, non facendomi quasi entrare nei reparti, anche a causa della mia età maggiormente a rischio, la paura più grande e constante era per la nostra salute. Comandavo una nave sulla quale il mio equipaggio poteva facilmente morire. All’inizio la paura vera era quella di non essere all’altezza, subentrata successivamente da quella di dover farcela da soli. Ho capito che protezioni e linee guida non sarebbero arrivate in tempo. Si doveva fare noi, si doveva fare in fretta. Abbiamo imparato strada facendo. A fine Febbraio eravamo in una posizione obliqua, alcuni di noi hanno capito e si sono protetti. Gli altri nonostante fossero medici si sono ammalati tutti.








dr.ssa Ilaria M.
Specialista in malattie infettive

“Mi è sembrato assurdo essere qui nella mia città e non fare nulla. Così mi sono data da fare. Ero disposta a licenziarmi da Medici senza Frontiere in crisi Ebola per seguire l’emergenza Covid. La comunicazione con la zona rossa sembrava un set cinematografico. Il vetro di separazione tra noi e loro era barriera fisica e mentale. Dopo pochi giorni era tappezzato di fogli con istruzioni e procedure per le due sezioni che non comunicavano in altra maniera. Dovevi fidarti completamente degli infermieri dentro, non si sprecavano dispositivi di protezione per entrare dieci minuti a controllare i pazienti. Il personale ospedaliero che era dentro in quel momento era i tuoi occhi e le tue orecchie. ”






dr. Filippo L.
Medico Infettivologo 

“Si ammalavano, avevano paura di morire e morivano. Noi ci siamo formati con l’HIV, questo è stato un fulmine velocissimo.
E non eravamo preparati.”






dr.ssa Laura T.
Specialista in malattie infettive 

“Ho fatto una telefonata a una moglie dicendole che suo marito era morto. Non avrebbe potuto vederlo. 
Non lo dimenticherò mai.”
dr. Francesco V.
Specializzando 

“All’inizio ero molto eccitato, era la prima volta nella mia vita in cui sentivo che stavo vivendo un momento storico. Ogni giorno che passava superava le aspettative del giorno prima. Totalmente imprevedibile. Sono di Roma, quando sono tornato a casa dopo mesi mi sono sentito completamente distaccato dalla realtà, ero ancora nella bolla dell’ospedale di Torino, non ne sono praticamente mai uscito.”







dr. Andrea C.
Medico Infettivologo 

"Per me è stato come una lunga apnea... prima dei numeri enormi cercando di studiare tutti i dati che venivanno dalla Cina, poi elaborando nelle pause o la notte dei protocolli di terapia e di giorno lavorando in Reparto.
Ho vividi in mente i volti delle persone che sono state ricoverate da noi.
Su tutti una signora sopra gli 80 anni, una forza e un'energia uniche... ha resistito con la maschera giorno e notte per dieci giorni, aggrappandosi alla vita. Ne è uscita ed è il mio ricordo più felice, trasmette fiducia ed energia.
Ci sono stati giorni tristi e chiamate con lacrime alle famiglie che non vedevano i parenti da settimane. Poi c'è stata anche la mia malattia e qualche giorno di ricovero: un po' di paura all'inizio, il dispiacere di aver portato il virus a casa, per ora nessuno strascico."


Press 
Dietro La Maschera
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