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for LUCCA AUTORI
Faccio un mestiere strano, sono un funambolo, in equilibrio sul filo, sospeso a un’altezza inverosimile. Non c’è nulla né sopra, né sotto di me, neanche intorno, ora che ci penso, solo vuoto che si espande e tenta di risucchiarmi.
Il filo è la scrittura, è l’unico mezzo che mi consente di passare da una parte all’altra senza cadere, io ci cammino sopra e gli sono grata di esistere: quel filo rappresenta la mia salvezza. Senza di lui sarei schiantata a terra mille e mille volte, sarei diventata un ammasso di sangue e carne senza più sembianze, ma che bisogno c’è di stare in bilico sul mondo mischiati alle nuvole e alla curiosità della gente? Nessuno mi obbliga. Solo che non potrei rimanere tra quei volti che guardano, con il naso all’insù, sperando che io cada prima o poi, che auspicano la sciagura o gioiscono se barcollo, fingendo di trasalire. E’ il loro unico piacere. Perché non voglio fare parte di quella folla? Me lo chiedo spesso, anzi capita che tenti di mischiarmi alla ressa della metro, dei centri commerciali, delle vie. Che noia, però! Anzi un’ansia sottile da vigilia di Natale forzata.
No, non posso stare tra loro, anche se spesso ci provo. Non è una scelta, è un imperativo categorico. Sono estranea alle sagome umane. La terra e il suolo mi creano disagio. Mi fanno sentire incollata a un luogo privo di movimento.
Preferisco stare quassù, a rischiare di cadere e inseguire le parole che formano il filo su cui cammino, con l’asta dei miei pensieri che mi tiene in bilico, oltre i soliti discorsi scontanti.
Unici amici, i libri, alcuni, li annodo al mio filo, alle due estremità, rappresentano i capisaldi ai quali si appende il mio percorso, e cammino impavida, perfino in un periodo di dolore profondo come questo, mentre devo pensare solo a rimanere in equilibrio sul vuoto.
Mi vedo come in un trailer, pronta a essere dissolta dall’efferatezza di un’epoca che non perdona, che divora l’anima, che è schiava del web.
A volte mi tengono compagnia i fantasmi dei brani di Cechov, Rimbaud, Baudelaire, Simenon, Blanchot, le note di Debussy e Schubert; è come se incontrassi dopo tanto tempo, all’angolo di un paese abbandonato, le loro fisionomie conosciute, svelate da lampioni generosi che illuminano l’oscurità e mi rallegro del mio procedere.
Non devo distrarmi. Quando arrivo al centro del mio cammino, appesa quassù, a metà del filo, sento una sospensione sul resto che toglie il fiato, potrei morire e non accorgermene; quasi mi dimentico di esistere, di respirare, di soffrire. Non posso, però, dimenticare di camminare sul filo. Altrimenti cado, mi trasformo in una marionetta rotta.
Mi concentro, attenta,un passo dietro l’altro, una parola sospinta dall’altra, come le vele in una regata. Aggiro i vuoti dei sogni che mi appaiono inaspettati. Cerco nella punteggiatura un sostegno al mio procedere. Ondeggio, barcollo, avanzo.
Poi giungo, all’inevitabile traguardo, tocco la terra ferma, dopo la traversata, su un mare di aria rarefatta e crudele e mi stupisco della capacità di essere sopravissuta, ancora una volta, in modo inaspettato, sorprendente.
Saluto tutte le persone, già pronte a dimenticare quel buffo funambolo che li ha intrattenuti per pochi minuti, che sono rimaste deluse perché non si è sfracellato, e scendo di nuovo, tra uomini soli e ammassati. Loro hanno avuto in dono la mia capacità di rischiare, ma tengo per me il segreto di questa parola scritta che va oltre la corruzione del tempo.
Raggomitolo il mio filo con calma e me ne vado con un inchino da personaggio incomprensibile, lo so, per molti.
Letizia Pozzo
IL FUNAMBOLO
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